Don Quijote, o dell’essenza della danza

CATANIA – Che il linguaggio della danza contemporanea sia oggi, tra le arti, il vero regno della polisemia e dell’allusività ci vuol poco a capirlo e che esso, nel ritmo e nella connotatività emotiva e politica dei corpi, sia affine alla poesia è altrettanto evidente. Ciò che tocca la danza contemporanea può insomma davvero diventare poesia, ma questo accade efficacemente solo nel contesto di una piena e lucida consapevolezza estetica. Ci sono diverse linee di riflessione che s’intersecano, e che quindi vanno esplorate, nel raccontare il “Don Quijote” realizzato daLoris Petrillo con la (consueta) consulenza drammaturgica di Massimiliano Burini e prodotto da Cie Twain. Una coreografia che s’è vista a Catania il 24 e 25 ottobre scorsi, nello spazio danza di Scenario Pubblico. On stageYoris Petrillo, Nicola Simone Cisternino, Giacomo Severini Bonazelli; musiche realizzate e assemblate dallo stesso Petrillo con la collaborazione di Pino Basile. Uno spettacolo complesso, colto, divertente persino.

La prima linea di riflessione non può che riguardare il soggetto letterario a cui l’autore dichiara, già nel titolo, di volersi ispirare: l’immortale storia del cavaliere Don Chisciotte (col fido scudiero Sancho Panza) di Cervantes, un classico inesauribile della cultura occidentale, una storia archetipica e molto complessa che si dischiude ad accogliere il senso profondo della nascita della società capitalistica e, d’altra parte, la fine di ogni idealismo non utilitaristico. Don Chisciotte è colui che non si arrende e – folle, saggio, sognatore, fantasma o marionetta – trova comunque il modo di combattere le sue buone battaglie. Da notare anche che l’aver scelto di costruire una coreografia entro i limiti esatti di una storia molto conosciuta, non limita la creatività dell’artista ma anzi ne esalta la capacità di espandere dall’interno le possibilità simboliche.petrillo2

La seconda linea di riflessione tocca un livello più profondo dello spettacolo e s’intreccia profondamente alla prima , pur restando assolutamente visibile: sembra che il coreografo voglia provare a portare la sua danza, il suo linguaggio coreografico, il suo stesso spettacolo nelle vaste terre del comico. Terre che Petrillo scopre facilmente nel testo di Cervantes in tutta la loro fertilissima consistenza e che restituisce nella loro straordinaria bellezza, attivando (ma talvolta non controllandoli del tutto) i meccanismi basici su cui si fonda il comico: ovvero il ritmo avvolgente dello spettacolo e il ribaltamento della realtà normata (l’emersione del basso-corporale, la caduta anzi il capitombolo, lo schiaffone, il grottesco, la disarmonia, l’ambiguità, l’ironia, la sberleffo esplicitamente rivolto al prepotente).

Ma come è noto, e come del resto lo stesso Petrillo sembra aver chiaro, la comicità è parente stretta della rivolta politica e dell’utopia ed ecco che all’interno di questa stessa linea di sviluppo s’innesta un serrato confronto verbale con la realtà contemporanea, con la pervasività delle dinamiche economiche (e/o finanziarie) che azzerano ogni tensione ideale dell’individuo. La terza linea di riflessione è più che altro la stessa carta d’identità di Petrillo, la sua storia e la sua tensione a vivere la danza non tanto come una disciplina o come uno specifico linguaggio artistico, quanto come scelta radicale: da questo punto di vista questo lavoro può in qualche modo esser definito una meta-coreografia, laddove molti segni di esso (sin dall’attacco iniziale con i tre danzatori che giocano col tutù in testa) stanno proprio ad indicare che in fondo il don Chisciotte che qui viene ad esser immaginato è in qualche modo il danzatore, colui che sceglie di concedere al corpo la facoltà di esprimersi e comunicare in piena autenticità.

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Paolo Randazzo

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