Lampedusa Beach

Non ci vuole molto a capire che, se c’è un aspetto dell’attuale realtà mediterranea che merita d’esser raccontato, questo non può che essere l’imponente fenomeno migratorio che, dalle coste africane e mediorientali, sta toccando in questi anni e ogni giorno di più le coste meridionali dell’Europa e, al primo impatto, la Sicilia e le sue isole minori. Un fenomeno imponente, troppo spesso tragico, denso d’implicazioni di senso e i cui effetti demografici, già visibili, annunciano grandi cambiamenti sociali, politici e culturali. Disinteressarsi di un fenomeno del genere, girarsi dall’altra parte, far finta di niente, significa non aver voglia di capire come funziona il mondo (per ignoranza, pregiudizio razzista, egoismo in malafede) e però l’arte non può essere indifferente al mondo. Da questa prospettiva, al contrario, Lina Prosa, drammaturga e regista palermitana ha da sempre vista lunga e sguardo profondo: la sua ricerca ha intersecato negli anni frontiere che riguardano i segmenti più vivi, mobili e fecondi della cultura contemporanea: le migrazioni, il corpo, la diversità, la malattia. E la sua scrittura teatrale ha già avuto i riconoscimenti che merita, ma in Francia, dove è stata accolta (non per la prima volta) con una messa in scena, nella primavera scorsa, del testo “Lampedusa Beach” sulla scena parigina della Comédie Française e, sempre in questo teatro, con la realizzazione dell’intera “Trilogia del Naufragio” (oltre “Lampedusa Beach”, anche “Lampedusa Snow” e “Lampedusa Way”), presentata tra gennaio e febbraio scorsi. Detto ciò, non può che far piacere constatare che dal 21 marzo al 17 aprile e poi dal 6 al 18 maggio, “Lampedusa Beach” è stato, finalmente, in scena anche in Sicilia, a Palermo, con un nuovo spettacolo firmato dalla drammaturga, anche in veste di regista, e con l’interpretazione della giovane Elisa Lucarelli (una prova di maturità espressiva); a produrlo e ospitarlo il Teatro Biondo con un’operazione meritoria alla quale è quasi ovvio sperare che si dia seguito con la produzione degli altri due testi di questa trilogia. Lo spettacolo si dispiega come monologo: il monologo terso e tremendo di una giovane nordafricana, immigrata clandestina, di nome Shauba che affoga nel mare proprio di fronte alla costa di Lampedusa. Shauba affonda inesorabilmente e quasi paradossalmente, affoga e rievoca la sua breve esperienza di vita, i suoi affetti, i colori del suo paese, le sue speranze, le motivazioni che l’hanno indotta a fuggire dalla sua terra («non si può rimanere nel luogo in cui si nasce, se hai la certezza che in quel luogo vive pure il tuo carnefice»): il tempo di uno spasimo, pochi istanti che si dilatano ad accogliere e ricapitolare il senso di una vita, di un viaggio, di un futuro stroncato, il senso del tradimento nei suoi confronti dell’occidente “capitalista” (in cui lei era pur pronta a integrarsi). Rievoca gli istanti tremendi della sua caduta in mare Shauba, dal rovesciarsi di quel barcone zeppo di settecento immigrati, di quella carretta che si ribalta proprio mentre lei sta per esser violentata dagli scafisti, cani che s’azzuffano per il suo corpo di giovane donna come per un pezzo di carne, fino al momento in cui lei (ma il suo corpo è già un’altra cosa), stremata ed esanime, tocca il fondale. La scrittura scenica è pulita, i colori netti, non ci sono musiche (scelta davvero interessante), né ridondanze espressive che tradirebbero la tremenda semplicità dell’accadimento, quasi ogni parola respira col suo tempo esatto e la profondità che questa vicenda implica in quanto tale: si percepisce chiaramente che coincidono regista e drammaturga. Eppure, se qualcosa appesantisce questo lavoro, è proprio l’esplicitarsi della riflessione critica e apertamente politica, il ragionare sul tradimento dell’occidente e sulla sua ostile indifferenza rispetto a quanto accade nel Mediterraneo: quel che succede a Shauba, il suo corpo che affonda e diventa pasto per i pesci, è un urlo politico in sé, lacerante e durissimo, non occorrono parole per spiegarlo, per definirlo e situarlo. Se noi italiani, se noi europei non capiamo il senso di quel che accade a Shauba siamo già perduti; se il Mediterraneo si è trasformato, in questi ultimi anni soprattutto, in uno sterminato cimitero sottomarino, forse dovremmo capire davvero che questo cimitero altro non è che l’immagine reale che l’Occidente dà di sé riflettendosi nel mare. «Il mare è innocente» dice, a un certo punto dello spettacolo, Shauba ed ha ragione.

Paolo Randazzo

Link da Dramma.it

Inda 2014, cento anni di riflessione sulla drmmaturgia antica

Che tipo di esperienza è quella del teatro antico sulla scena contemporanea? Si portano in scena vicende la cui formalizzazione mitica risale al secondo millennio a. C., le si rimettono in forma teatrale, si ascolta la voce di una tradizione che ha accompagnato il fulgore della vicenda ateniese nel V secolo.

Però parliamo di teatro e allora è necessario che quanto si porta in scena sia vivo e abbia a che fare con la contemporaneità: interpelli la nostra vita, la vicenda attuale delle nostre comunità, ci emozioni e, al contempo, ci solleciti intellettualmente. In via di principio non ci sono alternative: o così o nient’altro di artisticamente notevole. Ma il teatro è arte concreta, fatta di persone in carne e ossa, di tempi definiti, di contesti storico-politici, di tradizioni culturali, di progetti che solo nella realtà trovano espressione e attuazione. Quel che vale in linea di principio diventa processo e tensione, si stempera e si va avanti. Questo è quanto vien fatto di pensare nel raccontare dei tre spettacoli della cinquantesima edizione delle “Rappresentazioni classiche” di Siracusa, organizzata al Teatro Greco dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico giunto quest’anno al ragguardevole traguardo dei cento anni dalla sua fondazione. Gli spettacoli, che hanno debuttato il 9, 10 e 11 maggio scorso e resteranno in scena fino al 22 giugno, sono: Agamennone, per la regia di Luca De Fusco (il testo di Eschilo è tradotto da Monica Centanni), Coefore Eumenidi, regia di Daniele Salvo (traduzione ancora della Centanni), infine le Vespe di Aristofane, regia di Mauro Avogadro, traduzione e adattamento di Alessandro Grilli. La scenografia, unica ma variamente riattata, è del grande Arnaldo Pomodoro che ha curato anche il disegno dei costumi.

L’Agamennone di De Fusco è uno spettacolo solido: la sua costruzione predilige chiarezza e intelligibilità, non pone troppe domande né proietta troppe ombre sul presente, non sollecita emozioni estreme, non sviluppa fino in fondo motivi che pure individua (l’oppressione della donna nel mondo greco, il ristabilimento di giustizia e pace dopo una lunga catena di vendette, la presenza della morte come elemento della vita, la solidarietà verso gli stranieri), aggancia alla magistrale duttilità dell’interpretazione di Elisabetta Pozzi e alle musiche (di Antonio Di Pofi) la possibilità di una riproponibilità contemporanea del testo eschileo. Ma le musiche (un bel pianismo d’intonazione novecentesca) non conservano la rigorosa astrattezza iniziale e si stemperano in accenni narrativi che poco aggiungono allo spettacolo. Resta notevole l’immagine del coro dei vecchi argivi che entra in scena e si auto-seppelisce per riemergere non appena il dramma si avvia: quasi a dire che quanto accadrà nello spettacolo è conservato e continua a vivere nelle viscere della terra, della storia e della storia del teatro. Il resto è solido mestiere, comprese le prove di Mariano Rigillo (Araldo), di Massimo Venturiello (Agamennone), di Giovanna Di Rauso (una Cassandra straordinariamente intensa) e dei corifei (Francesco Biscione, Massimo Cimaglia, Piergiorgio Fasolo, Gianluca Musiu); grandissimo mestiere, e però da veri professionisti ovvero senza tracotanza, senza superficialità.

Ben più imponente e suggestiva è la prova di Daniele Salvo. Imponente perché fonde in un solo spettacolo due tragedie di Eschilo, Coefore ed Eumenidi, e affronta le due azioni che stanno al cuore dei testi eschilei, ovvero l’uccisione di Clitennestra (Elisabetta Pozzi) da parte del figlio Oreste (Francesco Scianna) e la fondazione del tribunale dell’Areopago attraverso l’assoluzione di Oreste, con un piglio ed un’assertività che nulla lasciano alla consapevolezza dell’alterità del mondo classico rispetto a noi. Ecco il punto: ciò che è in scena accade in quanto tale e nessuna domanda sembra porsi il regista sul senso di quella vicenda e sul senso stesso del riattivare dei testi antichi e capitali. Certo, la nascita politica della giustizia, il superamento delle faide tra clan, la feconda ritenzione nel contesto della polis dell’ancestrale elemento negativo delle erinni trasformate in benevole eumenidi: sono tutti elementi che Salvo mette in luce, con potenza e nettezza, ma manca lo spessore di chi dubita e si pone (e pone al pubblico) domande, lasciando aperta la porta a risposte più o meno univoche. Ad esempio: il demos, che avoca a sé la giurisdizione penale, è davvero sovrapponibile a ciò che definiamo popolo? Una giustizia fondata sul potere maschile e che rivendica questa cifra ideologica può davvero definirsi tale? Perché il regista sceglie di esporre l’uccisione della madre da parte di Oreste in piena scena, con un’infrazione evidente e notevolissima dell’antica prassi teatrale tragica? Evidentemente non scandalizza l’infrazione in sé, ma la sua gratuità. Insomma una messinscena colossal che rapisce il pubblico con la sua grandiosità, con la facilità della cifra iconica, con l’avvolgente colonna sonora di Marco Podda (anche qui il segno è più cinematografico che teatrale), con effetti di luci e fumi, con un ritmo scenico incalzante sin dalle prime battute di Elettra (Francesca Ciocchetti), col gran numero di presenze in scena, con la bravura (va da sé) di grandi attori come Ugo Pagliai (Apollo), Paola Gassman (profetessa), Antonietta Carbonetti (nutrice), Piera degli Esposti (interessantissima nel ruolo di un’ Atena più saggia e dubitante che guerriera), Graziano Piazza (Egisto), ma non scava né in direzione della comprensione dell’antico, né in direzione della problematicità del rapporto tra quel mondo e la nostra realtà.

La commedia, firmata da Mauro Avogadro, è uno spettacolo pulito e arguto per un testo, le Vespe di Aristofane, tra i più difficili da mettere in scena nell’ambito della commedia antica. Se nella prima parte della drammaturgia infatti il nodo comico è chiaro e ben definito, ovvero la passione/ossessione tipica del demos ateniese per processi e giurie popolari, nella seconda parte la trama si sfilaccia e perde tensione teatrale. Avogadro sceglie per il rapporto tra il vecchio padre (seguace di Cleone, appassionato, severissimo giudice popolare che non riesce a vivere senza qualcuno da inquisire e condannare) e il figlio (odiatore di Cleone e di quanto l’ideologia democratica impone) spazientito e preoccupato per il padre, il tono di tenerezza affettuosa dei figli che provano nel proteggere e accudire i genitori anziani. Un rapporto ben incarnato dall’interpretazione di Antonello Fassari (Vivacleone, il padre bisbetico, conosciuto dal grande pubblico come protagonista della serie televisiva dei Cesaroni) e di Martino D’Amico (Abbassocleone, il figlio). Intorno a questo nucleo affettivo e al contrasto politico tra i due, si dispiega quindi tutto il fervore della fantasia di Aristofane la cui cifra viene bellamente espressa non solo dall’intero ensemble degli attori (tra gli altri Sergio Martinelli, Sosia, e Enzo Curcurù, Santia) e del coro, quanto, soprattutto, dalle musiche quasi interamente suonate dal vivo della “Banda Osiris”. Musiche capaci d’interpretare le diverse fasi dello spettacolo e trascinare il pubblico in una percezione dell’arte aristofanesca che supera qualsiasi piccolo aggiornamento delle battute su questo o quel politico e va dritto al segno di ciò che questo grande poeta rappresenta per il teatro occidentale: ovvero una straordinaria, inesauribile enciclopedia della comicità.

Paolo Randazzo

foto Carnera, Centaro, Aureli

Link da Dramma.it

Se’ nummari

Difficilmente si può capire (ma capire davvero, fino in fondo) quale devastazione sia per una coppia l’arrivo di un figlio handicappato o disabile: quale lacerazione, quale doloroso e inestricabile groviglio di sentimenti e pensieri esso comporti, quali ondate di paure intollerabili, di frustrazione, di amore disarmato, di tenerezza infinita, di fantasmi, di odio feroce, di perdita di senso per il presente, per il futuro e persino per il passato, possano abbattersi addosso ad una madre e a un padre che si trovano a vivere una situazione simile. Sono poche le coppie che, trovandosi a gestire un’esperienza del genere, riescono a trovare un equilibrio autentico e a salvarsi in quanto tali. Di fronte ad una situazione simile, forse, non si può assumere altro atteggiamento che una solidarietà rispettosa, attiva, partecipe, ma silenziosa: nessuna parola può essere del tutto al riparo dalla menzogna (per egoismo, per paura, per debolezza) di fronte a casi del genere. Ma non solo: una tale realtà scaraventa addosso alle persone che si trovano a viverla una tale quantità di domande capitali e brucianti, strutturalmente tragiche, sul senso stesso della vita e dello stare al mondo cui neppure chi ha maturato autentica saggezza interiore, equilibrio e solidi strumenti culturali può agevolmente fornire risposte accettabili. Ecco che, allora, portare in teatro una tale ferita appare operazione coraggiosa e difficilissima, ma è quanto accade in “Se’ nùmmari” (sei numeri), lo spettacolo prodotto dallo Stabile Etneo che s’è visto venerdì 2 maggio a Noto (al Teatro comunale “Tina Di Lorenzo”) prima di passare a Catania dove sarà in scena al Musco fino all’8 maggio. Il testo è di Salvatore Rizzo, la regia (con le scene e i costumi) di Vincenzo Pirrotta, l’interpretazione di Filippo Luna (Orazio, il padre) e di Valeria Contadino (Anna, la madre), le musiche sono di Giacomo Cuticchio. Diciamo subito che si tratta di uno spettacolo ruvidamente potente che affronta la tematica con diretta immediatezza andando subito al cuore vero del problema, alla verità di una specifica e disastrosa condizione umana e non indugiando in nessun momento in falsi pietismi o in solidarietà di facciata; e questo, certo, è un bene e fa bene a quella necessaria dimensione di verità, al di fuori della quale si tradirebbe l’assunto stesso di un’operazione del genere e la si ribalterebbe in pornografia. La verità dunque, senza infingimenti, anche quando è brutta, dolorosa e persino terribile ad accettarsi: la verità di una madre e di un padre che, dopo più di diciotto anni passati ad accudire esclusivamente e amorosamente il figlio tetraplegico, a nutrirlo, a proteggerlo gelosamente, anni in cui si sono letteralmente dimenticati di loro stessi, dei loro corpi, del loro amore, della loro intimità, in un solo istante scivolano nella follia del male, si perdono e, colpevolmente, lo perdono, di fronte al sogno di una vita da benestanti, un sogno improvvisamente divenuto possibilità reale grazie a una vincita al lotto (sei numeri, appunto, sei numeri benedetti e maledetti insieme). Tutto questo va bene, ma tutto questo è ancora quasi soltanto il testo di Rizzo, non lo spettacolo e qui invece è dello spettacolo che dobbiamo dire, dello spettacolo di Pirrotta. Perché Pirrotta appare assolutamente consapevole delle straordinarie potenzialità del testo che ha in mano, della sua levatura tragica e della solidità dei due interpreti e tuttavia non rinuncia a proiettare con decisione il suo personale segno sulla scena. Ma forse meglio sarebbe stato se avesse ulteriormente esplorato la verità nuda e feroce del testo di Rizzo (interamente composto nella pasta densa e carnale del dialetto palermitano), la sua musicalità dolente, se avesse lasciato soltanto in controluce le proprie qualità professionali di regista formatosi nella tradizione del cunto, restando in silenzio rispettoso e partecipe. Ma non è stato così: il suo immaginario scenografico (i colori, le luci, le trasparenze), i movimenti, le nenie dolorose e strozzate, le litanie ritmate, le cantilene straniate, le sonorità ancestrali che connotano i suoi lavori, sono tutti elementi consueti (quindi esterni alla verità singolare del dramma in scena) del teatro di questo regista e hanno trovato ancora largo spazio in questo lavoro; così come del resto appare eccessiva la presenza delle musiche (seppure colte e di grande fascino) di Cuticchio.

Paolo Randazzo

Link da dramma.it

Una Bugia ci salverà

Con “Bugiardi nati” Ian Leslie ci porta in un viaggio nel mondo della menzogna
Una bugia ci salverà

La bugia insomma, in tutte le sue varianti e declinazioni, intesa, indagata e spiegata come elemento costitutivo dell’intelligenza umana sin dal suo primo rapportarsi creativo col mondo.

È sostanzialmente questa la tesi che Ian Leslie, studioso, giornalista ed esperto di marketing londinese, sviluppa nel bel saggio Bugiardi Nati. Perché non possiamo vivere senza mentire (di Bollati Boringhieri, traduzione di Barbara Del Mercato): un saggio interessante, ben documentato (i campi di approfondimento sono soprattutto la psicologia, l’antropologia, le neuroscienze) e, soprattutto, di lettura gradevole e divertente, data la facilità con cui l’autore riesce a intrecciare in un percorso coerente dati provenienti da autorevoli studi scientifici (anche dal sapore paradossale, come la media di 1,5 menzogne al giorno che ciascuno preferisce secondo i calcoli della psicologa statunitense Bella De Paulo) con una straordinaria quantità di aneddoti e affermazioni attribuibili a filosofi, politici, scrittori, registi e artisti di quasi ogni era, ambiente intellettuale e latitudine.

bugiardi nati copertina

 

C’è invero da premettere un “quasi” alla vastità documentaria di questo saggio, perché in esso, al contrario, appare del tutto assente la vastissima riflessione che su questo tema è sorta nel mondo classico sia dal punto di vista dell’elaborazione filosofica, morale e antropologica (Platone e Aristotele su tutti), sia dal punto di vista del pensiero estetica; basti pensare al detto celeberrimo del sofista Gorgia secondo cui: «La poesia è un inganno in cui chi inganna è più onesto di chi non inganna e chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare».

Ovviamente il rovescio della medaglia della menzogna è la verità e quindi la possibilità che essa possa essere attinta ed espressa fino in fondo, la possibilità in altre parole di “vivere con sincerità”. Una possibilità che l’autore sottrae ad ogni sguardo utopistico ed esamina da una concreta prospettiva minimale, totalmente laica e relativistica, invitando a perseguirla comunque attraverso l’esplicitazione di tre principi generali: condividere il lavoro e quindi sforzarci di «progettare e sostenere ambienti sociali che premino il più possibile la verità e chi la dice»; relativizzare la fiducia nelle nostre più solide certezze; «accettare un necessario margine di illusione».

Paolo Randazzo

Link da Europa

 

Ambra Senatore, A posto

danza

A posto”, lo spettacolo di Ambra Senatore che s’è visto nello spazio danza di Scenario Pubblico a Catania, il 23 e il 24 febbraio scorso, sollecita immediatamente una domanda: fin dove si può spingere una coreografia elidendo, gesto dopo gesto, quadro dopo quadro, proprio la sostanza della danza? Inutile girarci: si può dire quel che si vuole di questo lavoro (che certo è raffinato, e ironico, leggero, inquietante, e poi denso, colto, esatto nel disegno eppure surreale) e lo si può persino, ordinatamente, provare a raccontare e interpretare ma, se non si risponde (ancora, certo) a questa domanda, se non la si affronta nella sua semplice rudezza, se non si corre davvero il rischio critico di provare a rispondere ad essa, restano parole vuote che, sostanzialmente, non meritano nemmeno il tempo che s’impiega a leggerle.

Invece partiamo da un particolare: se si tratta di danza appare, o meglio potrebbe apparire, ovvio il suo dispiegarsi nel contesto di un tappeto ritmico, sonoro e/o, sopratutto, musicale che è insieme respiro e narrazione, ambiente e motore del movimento; in questo spettacolo invece la musica, insieme con rumori casalinghi, voci e motivetti televisivi o radiofonici, compare, scompare e ritorna a volume bassissimo, non viene mai in primo piano, accarezza quasi da dietro lo spettacolo, lo sfiora e non lo segna né domina mai. Il segnale è chiarissimo e resta comunque in primo piano il movimento delle tre danzatrici e, col movimento, una larga mimesi della relazione che va costruendosi lentamente, di gesto in gesto, di parola in parola, di sguardo in sguardo, fra tre giovani donne (tre danzatrici) fino ad assestarsi in una vaga gerarchia e trascolorare, infine, in una specie di pic nic dall’inquietante (tragico, tragicomico) risvolto finale.

danza 2

Il soggetto della mimesi lo si lascia sostanzialmente creare allo spettatore, mentre ciò verso cui lo spettacolo si volge con decisione è, con buona evidenza, la costruzione di uno spettacolo dalla drammaturgia possibile o potenziale rispetto alla quale la danza, la tradizione (in positivo e in negativo) del suo linguaggio, il dispiegarsi ritmico, sensato o simbolico del movimento, restano come paradossali allusioni, frammenti preziosi, indizi e indirizzi di stile e comunicazione più che sostanziale medium artistico. Indizi e indirizzi che vanno riconsiderati alla luce di una ricerca espressiva meta-coregorafica e meta-teatrale che non solo infrange ogni separazione tra le (due) arti, ma esplora liberamente territori linguistici, semantici e concettuali che attraversano la realtà, lasciandosene sporcare, e si stagliano prima e dopo lo spettacolo.

In questa esplorazione viene dunque aggirata felicemente e svuotata di senso la domanda che ci si poneva prima: non si tratta di elidere la danza ma di ripensarla e re-inventarla criticamente all’interno di uno spettacolo (di una dinamica forma-spettacolo) che non si dà tanto come prodotto concluso, quanto piuttosto come libera partitura di corpi, suoni, movimenti, gesti, aperta al senso (seppure un po’ troppo algida e intellettualistica dal punto di vista della comunicazione emotiva). In scena, con la stessa coreografa e danzatrice torinese, ci sono Claudia Catarzi e Caterina Basso (co-autrici dello spettacolo, laddove non appare casuale la necessità di una gestazione plurale di un lavoro di questo tipo), il disegno luci è di Fausto Bonvini, mentre le musiche sono di Brian Bellot, Gregorio Caporale, Ambra Senatore, Jimi Hendrix, Temptations.

 (crediti fotografici di Viola Berlanda)

“A posto” (2011), visto a Catania, Scenario Pubblico, il 23 febbraio 2014.

Coreografia Ambra Senatore, in collaborazione con Caterina Basso, Claudia Catarzi; con Ambra Senatore, Caterina Basso, Claudia Catarzi; luci Fausto Bonvini; produzione ALDES-SPAM, con il sostegno di MiBAC – Dipartimento Spettacolo dal vivo; Regione Toscana – Sistema Regionale dello Spettacolo; Fondazione Monte dei Paschi di Siena; Torinodanza; CCN Ballet de Lorraine; Château Rouge – Annemasse; Scènes Vosges avec le soutien d’Action Culturelle du Pays de Briey.

Paolo Randazzo

Link da Rumorscena

Emma Dante, Le sorelle Macaluso

È sempre interessante vedere come il mondo poetico di un artista si possa espandere nel tempo, possa dispiegarsi, aprirsi, scoprire altri territori di forma e senso, appropriarsene e, pur restando fedele a sé stesso, accogliere nella sua trama nuove istanze e suggestioni. “Le sorelle Macaluso”, l’ultimo lavoro di Emma Dante che abbiamo visto a Palermo (e si potrebbe dire finalmente..) nel grande palcoscenico del Teatro Biondo, sede dello Stabile, appare soprattutto notevole, perché pur restando totalmente nel solco della poetica e del linguaggio scenico, di una grande interprete del teatro italiano contemporaneo, sa esser nuovo e fecondo, solcato com’è da elementi di novità che non mancheranno di suscitare altri spettacoli ed altre meraviglie. Una veglia funebre che si svela per quel che è a poco a poco fino a definirsi compiutamente soltanto alla fine: quella di una famiglia di sette sorelle, un padre e una madre e un nipote; una festa e uno schianto, un uscire lento dal buio della vita, un ritrovarsi, tra vita e morte che si confondono, a ripercorrere le gioie e i dolori di una vita vissuta insieme e insieme attraversata, combattendo giorno per giorno la fatica della quotidianità (il segno sono gli scudi da opera dei pupi di Gaetano Lo Monaco Celano), e ancora un attraversare ombre e ricordi che si materializzano in presenze ti mettono le mani addosso e subito scompaiono, fino a quando la morte non si rivela nella sua dura necessità.

dante 2

La morte di una sorella, morta bambina al mare mentre si giocava, la morte di un padre amoroso e sudicio di lavoro, un uomo debole forse e lontano, la morte di una madre forte, bellissima e tenera e caduta troppo presto – le loro ombre resteranno per sempre legate in un abbraccio, la morte di un nipote, un futuro nel calcio certo e innamorato di Maradona ma troppo debole di cuore, e infine la scoperta della morte, celebrata in scena, della morte della sorella più grande, di colei che aveva accudito tutti e che, per quella rumorosa e stramba famiglia, aveva finito col rinunciare del tutto a se stessa, al suo sogno grande di diventare una ballerina.

Tutto si ricapitola e chiarisce alla fine, l’oscurità e la luce si fondono e si fondono il nero del lutto e i colori sgargianti dei miseri vestitini estivi, tutto perde peso e tempo, i nodi si stringono, la morte è contemporaneamente “exitus et transitus” come dicevano gli antichi. Apparentemente Emma Dante è ritornata sui suoi passi, ha ripercorso strade di senso che aveva scoperto coi suoi primi spettacolo (‘Mpalermu, Carnezzeria, Vita mia): il vibrare della schiera degli attori, il ritmo come elemento cardine, l’oscurità e i colori che l’accendono, la famiglia come luogo di violenza e di dolore, lo schianto della morte e del lutto, la scelta della musica (d’intonazione popolare e poi classica) a dare profondità e respiro ampio a ciò che accade in scena e ancora il corpo che si disarticola e parla, la poesia aspra del dialetto.

dante 1

Tutto: c’è tutto il grumo nero del mondo poetico di Emma Dante in questo spettacolo, ma è una bestia che l’artista ormai ha imparato a riconoscere perfettamente, a maneggiare senza perder l’equilibrio: ciascuno di questi elementi è come rivisitato, come se portasse, con sé, in sé, le tracce di una maturazione artistica avvenuta e certo non ancora esaurita, le tracce di un equilibrio nuovo che le consente di osservare il dolore, capirlo, senza però lasciare che esso si impadronisca della vita. E poi c’è anche molto altro, e molto altro di nuovo: intanto c’è una capacità (nuova) di riempire e far vivere lo spettacolo nello spazio di un grande palcoscenico pur mantenendo l’intensità originaria dei primi spettacoli concepiti in e per spazi scenici di ridotte dimensioni, c’è una nuova pulizia nell’assetto dello spettacolo, c’è la scoperta di una dimensione di pietas familiare che va molto oltre il disagio e la primitiva violenza, come cifra assoluta della famiglia, e incontra l’amore, la tenerezza (esattamente), la gioia, la follia, il desiderio.

Ed ancora la lingua che non è più soltanto il dialetto di Palermo, ma anche quello barese di una delle sorelle e l’accento, siciliano ma straniato e dissonante, di Alessandra Fazzino, quasi a dire che non sono più soltanto le viscere di Palermo a riscaldare e sciogliere la lingua a questo teatro, ma una visione più ampia e consapevolmente più profonda del sud. Tutte molto brave e da citare le sette attrici in scena: la danzatrice Alessandra Fazzino (nel ruolo di Maria, la sorella più grande) innanzitutto, e poi Serena Barone (Lia), Elena Borgogni (Antonella), Italia Carroccio (Gina), Marcella Colaianni (Cetty), Daniela Macaluso (Pinuccia), Leonarda Saffi (Katya), e con esse Davide Celona (Davidù, il nipote), Sandro Maria Campagna (il padre) e Stephanie Taillandier (la madre).

Lo spettacolo è molto bello ma averlo visto a Palermo è motivo di gioia vera. Ed è, soprattutto, motivo di speranza. Emma Dante è stata per anni una voce di riscatto (una voce libera e dolorosa) per gli uomini e le donne che in questi anni hanno scelto di restare a vivere in Sicilia a lottare, ciascuno al proprio posto, perché in questa terra martoriata dalla mafia e da una politica sorda, ignorante e cialtrona si possano avere le stesse opportunità di crescita culturale che altrove. Ha viaggiato, ha girato il mondo col suo lavoro e con lo straordinario e meritato successo dei suoi spettacoli, una nuova generazione di artisti e teatranti siciliani le è sbocciata a fianco ed è cresciuta assorbendo la sua voglia di lottare, prima ancora che il rigore e la forza del suo linguaggio artistico, ma Emma è restata piantata in Sicilia a lavorare anche in spazi improbabili e piccoli teatri di provincia e oggi è artista residente al Biondo Stabile di Palermo: una cosa che sarebbe stata normale già da tempo in un paese civile, ma per anni non è stato così e se oggi è così questo – senza eccedere nella retorica – è segno di una vittoria (piccola, certo) nel contesto di una guerra più grande. Una guerra che non è finita e che però oggi qualcuno ritorna ad aver voglia di combattere. Visto il 1 marzo 2014 al Teatro Biondo, Stabile di Palermo .

Paolo Randazzo

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Roma, una sintesi illuminata

Nel saggio di Peter Jones un brillante ed efficace excursus nella storia romana dal VIII secolo a.C. al V secolo d.C.
Roma, una sintesi illuminata

Qualunque idea si abbia del concetto di “storia” (ammesso che nei tempi che ci troviamo a vivere, dominati dal demone dell’istantaneità, sia ancora utile o necessario averne una), se a questo concetto si dà ancora importanza e se ad esso si attribuisce o meno una qualsiasi teleologia, occorre tuttavia che un po’ di storia la si conosca: fatti storici, protagonisti, traiettorie, dinamiche politiche, eventi.

Banale constatazione? Certo che sì, ma forse neppure più di tanto se si osservano non tanto, o non solo, le frequenti iniziative editoriali che ripropongono collane storiografiche variamente assortite, quanto piuttosto la preoccupante ignoranza storica con cui le opinioni pubbliche valutano le dinamiche socio-politiche del presente.

Ora, se è vero che la diffusione della cultura storica è (o dovrebbe essere) obiettivo primario anzitutto della scuola, è anche vero che l’editoria deve fare la sua parte e non solo con saggi di sicura rilevanza scientifica, ma anche con opere di sana divulgazione che consentono un’ampia e corretta conoscenza della storia umana.

breve storia di roma copertina

È in questa direzione che va considerato Breve storia di Roma, tutto quello che avreste sempre voluto sapere dello storico e antichista inglese Peter Jones (Bollati Boringhieri): un excursus che, in dodici capitoli, traccia una rapida ed efficace sintesi della storia romana, dagli inizi del VIII secolo a.C. avvolti nel mito fino al V secolo d.C. col trionfo del Cristianesimo.

Una sintesi che, senza essere superficiale, è rapida, spesso illuminata da un sorriso di affettuosa leggerezza e, di capitolo in capitolo, arricchita da curiosità, miti, episodi, citazioni che, attenuando la monumentalità di ciò che si racconta, consentono al lettore di rendersi conto di quanto grande sia il nostro debito di civiltà e di cultura nei confronti della vicenda latina.

Si troveranno in questo libro, infatti, i miti della fondazione di Roma (il mito troiano, sostanzialmente, e i tanti racconti che tramandano la grande apertura dei romani agli apporti stranieri nel contesto della formazione della città), quindi i tradizionali capisaldi del costume romano di origine agricola, i primi passi del diritto e della costruzione istituzionale, l’accrescersi della Res Pubblica e il dispiegarsi della sua potenza militare, l’apporto economico e culturale dell’enorme presenza servile, il tormento delle guerre civili, la dittatura cesariana, l’affermarsi del principato augusteo e poi dell’impero, fino ai rapporti, sempre più duri, con le tribù barbariche che premevano ai confini del territorio imperiale.

Ma, accanto a queste vicende, ecco «l’invenzione delle tasse», il significato dei nomi, il potere del «gossip», le dinamiche sessuali ed affettive, la presenza e l’incidenza della cultura letteraria, la «fauna» urbana, la mania per il circo e per i combattimenti gladiatorî, la corruzione, il potere delle donne e le donne al potere, le terme, l’onnipresente salsa di pesce, le peculiarità caratteriali dei singoli imperatori.

Paolo Randazzo

Link da Europa

Frugalitas

Paolo LEGRENZI, “Frugalità”, Il Mulino, 2014, pp.144, euro 12,00

Homo frugi, ovvero uomo frugale, sobrio, persona solida, per bene: chissà se gli antichi latini avrebbero mai potuto immaginare che la frugalitas, una delle virtù cardine del loro tradizionale sistema morale di origine agricola, sarebbe divenuta, in un percorso di più di due millenni, quella che oggi qualcuno definisce “un’importante utopia minimalista”. Una lenta e straordinaria evoluzione di senso che Paolo Legrenzi racconta con piacevole acume nel saggio di recente pubblicazione “Frugalità”. Il contesto di pubblicazione è la nuova serie “Parole Controtempo” della collana “Voci” del Mulino: brevi saggi tesi a illustrare la presenza nella nostra cultura di parole/concetti (silenzio, pazienza, perseveranza, pudore, onore, prudenza, coraggio e frugalità appunto), parole antichissime, forse obsolete o segretamente vitali, che rimandano ad un’idea di umanità assai diversa da quella che la cultura capitalistica propugna ed ha imposto. legrenzi copertinaMa torniamo al percorso della parola /concetto “frugalità”. Legrenzi dispiega l’argomentare del suo saggio a partire da che cosa non è la frugalità: non è povertà, non è avarizia, non è scelta di risparmio, è piuttosto una scelta consapevole di rifiuto o di riduzione del consumo di beni che hanno acquisito un prezzo sul mercato (meglio, sui molteplici mercati) a favore di beni che non sono in vendita. Il modello che si propone, al di là delle tantissime suggestioni, positive e negative, tratte dalla storia (ad esempio, la disputa nata in seno alla Chiesa medievale relativamente alla contrapposizione tra i concetti di uso e di possesso), dalla letteratura (da Hemingway a Garcia Marquez, da Henry David Thoreau a Musil, da Walter Siti alla Munro), dal cinema, dalla riflessione economica (da Krugman a Zamagni) e dalla teoria del marketing, è esemplificato con maggior chiarezza da una piccola ma pregnante storia familiare: al trisavolo di Legrenzi, Alessandro Rossi, piccolo imprenditore veneto del tessile, la nuora aveva chiesto di acquistare un carrettino per far giocare i nipotini, avendo lei stessa in precedenza acquistato un pony; ecco come le risponde l’imprenditore«Duolmi di non poter aderire alla tua richiesta: non comprerò la charrette e non approvo l’acquisto del cavallino. Con lo stesso corriere, insieme alla tua letterina, m’è pervenuta la relazione settimanale di Fochesato (il direttore del lanificio) il quale mi avverte doversi licenziare due operai recentemente assunti in prova, perché il loro rendimento non corrisponde al salario, che per conto loro inciderebbe sul bilancio dell’opificio. Considera, figliola carissima, che prezzo di poney e charrette corrisponde al salario dei due che devonsi licenziare». Ecco tutto: non una semplice scelta di avarizia o di risparmio, ma una scelta dettata da “normale” frugalità; una scelta ancora quasi ovvia ancora nella cultura ottocentesca, ma spazzata via nel mondo occidentale nel momento in cui si scopre il potere del marketing e, con esso, lo straordinario potenziale commerciale (e quindi politico) del desiderio. Oggi la frugalità riguarda la qualità della vita, il benessere non la ricchezza, e sceglierla, essendo consapevoli della forza dei brand e della pervasività di un modello economico che si basa sui desideri coltivati in modo abnorme o artificialmente indotti, ci rende non solo robusti come individui e cittadini, ma soprattutto “antifragili”, ovvero capaci di affrontare più agevolmente i cambiamenti e le eventuali disavventure della vita e della storia.

Paolo Randazzo

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