Giorgio Agamben e Jean Baptiste Brenet, “Intelletto d’amore” Quodlibet, 2020, pp. 76, euro 12,00.
Ci sono libri che intrigano non solo per ciò che contengono ma soprattutto perché, una volta letti, spingono irresistibilmente il lettore a interrogarsi sul senso del loro esser stati concepiti e pubblicati. È sicuramente questa la tipologia di “Intelletto d’amore”, breve ma assai denso saggio di Giorgio Agamben e Jean-Babtiste Brenet (prefazione di Alain De Libera) che l’editore Quodlibet ha pubblicato di recente. Si tratta di due testi (“Intelletto d’amore” di Agamben e “L’immagine abolita, desiderata” di Brenet) che, nella loro profonda dialogicità, testimoniano del colloquio intercorso tra i due pensatori sul tema della conoscenza nella filosofia antica e medievale e verificatosi pubblicamente al College de France nel maggio del 2015. Le due riflessioni si dispiegano lungo le vie tortuose e affascinanti dell’averroismo di Guido Cavalcanti e della possibilità della conoscenza (ovvero, usando il termine dell’averroismo, della “congiunzione” dell’intelletto possibile dell’uomo con l’intelletto unico ed eterno) attraverso l’azione dell’amore che, nell’intelletto possibile ha «il suo luogo proprio». Di quell’amore, come spiega Agamben, del quale immediatamente si profila in carattere desiderante e fantasmatico: «tutti i nomi di donna e i senhals che popolano la poesia d’amore trobadorica e stilnovista nominano il fantasma in quanto, nell’esasperata cogitatio amorosa, opera la congiunzione con l’intelletto possibile». Ma se in Dante (anche) l’esperienza amorosa più lacerante sembra trovare composizione in una più vasta preoccupazione politica che riguarda l’intero genere umano, in Cavalcanti la dimensione soggettiva resta in primo piano e travalica in una specie di morte del soggetto che «dopo la congiunzione con l’intelletto sopravvive come un automa o come la statua di se stesso». Brenet prende l’abbrivio da quest’ultimo snodo concettuale, ovvero dalla dissoluzione del fantasma in quanto oggetto unico d’amore e di conoscenza, e spiega: «Condotto al colmo del suo essere, il sapere fantasmatico conosce un vero e proprio annullamento, come in un diluvio mentale o in un’apocalisse». Il tutto mettendo a fuoco la tensione vitale e il dialogo carsico ma senza soluzione di continuità tra passato e contemporaneità. Una tensione vivissima che si dipana dal pensiero di Aristotele e giunge, attraverso Alessandro d’Afrodisia (II, III sec.) e poi i filosofi arabi medievali – Avicenna, e Avorroè –, Tommaso d’Acquino, la poesia di Cavalcanti e Dante e la riflessione di Meister Heckart, fino a Freud (la “Nota sul Notes magico”, come metafora della processo cognitivo), Hannah Arendt, Ernst Kantorowicz. Il tema è dunque la consapevolezza viva e vitale delle dinamiche della conoscenza del reale, della sua possibilità o negazione: una consapevolezza che certo deve essere attraversata soggettivamente dalla dinamica del desiderio, ma poi deve giungere ad una dimensione collettiva e politica che è l’unico vero vaccino capace di preservare l’umanità dall’autodistruzione.