La verità delle religioni è solo il dialogo

Roberto Celada Ballanti “Filosdofia del dialogo interreligioso”, Morcelliana, 2020, pp. 178, euro 14,00.

Paolo RANDAZZO

Si fa presto a dire “dialogo”. Si fa presto, e spesso si fa male: il dialogo richiede capacità di silenzio e ascolto, empatia e intelligenza, autodisciplina, cultura. Il dialogo, se praticato con serietà, diventa luogo di pace, progetto politico pregno di speranza e questo può accadere ad ogni livello della condizione umana, può attraversare meridiani e paralleli. Certo resta forte l’odio, continuano le guerre, permane la politica come forza e sopraffazione. Oggi però non si può volar basso, malgrado il male che ogni giorno attraversa le vite degli uomini e rispetto al quale siamo mitridatizzati dai media, davvero non si può. Non possiamo non pensare con stupore e gratitudine a quanto è appena accaduto in Iraq, tra le macerie spirituali e materiali di Najaf, Mosul, Erbil. Non possiamo non riflettere su quanto coraggio, volontà d’amore, ascolto, empatia, carità, cultura ha messo in campo Papa Francesco recandosi in Iraq a dialogare con i musulmani e i cristiani di quella terra. A pregare con loro, a chiedere che le religioni considerino abominio e negazione di Dio ogni violenza. Amore e dialogo: nient’altro, nessuna scorciatoia. “Rinunciare al nemico” hanno titolato i giornali, sintetizzando il messaggio di Francesco e non c’è altro d’aggiungere. Ma per non fermarci alla superfice mediatica, per capire la straordinaria grandezza del gesto del papa, occorre guardare al suo significato profetico, ripensare a quanto abbia inciso la globalizzazione sulla necessità di dialogo tra religioni. Occorre considerare il lavorio spirituale e filosofico che sta rivitalizzando il dialogo interreligioso. È di grande aiuto, in questo senso, il piccolo saggio di Roberto Celada BallantiFilosofia del dialogo interreligioso” (Morcelliana, euro 14,00). Un saggio denso di pensieri e sapienza, da leggere con apertura di mente e autentica disponibilità di cuore. Una ricerca del senso possibile nel territorio del dialogo tra religioni. Si parte con una riflessione sul mito di Iride e da quanto Raimon Pannikar ha scritto su questo mito illuminante: «Le diverse tradizioni religiose dell’umanità sono come il numero quasi infinito di colori che appaiono quando la luce divina, o semplicemente la luce bianca della realtà, colpisce il prisma dell’esperienza umana: si rifrange in innumerevoli tradizioni, dottrine e religioni. Attraverso ogni specifico colore, in questo caso una religione, si può raggiungere la sorgente della luce bianca». Questo il punto di partenza, ma il campo della ricerca è il confine, la soglia tra le tradizioni religiose. Non è una ricerca semplice, anche se un atteggiamento superficialmente relativistico potrebbe liquidare la questione in due parole. Si tratta di concepire un assoluto religioso che si manifesti pacificamente in forma plurale. Dapprima sono attraversate tre esperienze di dialogo filosofico: il “De pace fidei” di Niccolò Cusano del 1453 con l’idea di religio una, separata dalle religioni positive ma, al contempo, presupposta in esse; il “Colloquium Heptaplomeres” di Jean Bodin del 1588, coraggioso nel suo polifonico pluri-prospettivismo religioso; il dramma “Nathan il saggio” di Lessing del 1779. Un dramma che, al suo III atto, approfondisce la già vertiginosa “Parabola dei tre anelli”: la verità religiosa, nel suo nucleo più antico e inattingibile è custodita nella varietà religiosa. Nella seconda parte del saggio l’autore si confronta con Leibniz ma si sofferma soprattutto sulle pagine di pensatori e scrittori contemporanei: Italo Calvino, Deleuze, Simone Weil e ancora Pannikar. «La via all’universale – spiega – passa per quell’inversione che implica (…) la rinuncia da parte di religioni e Chiese alla logica identitaria fondata sul potere, sull’amministrazione della salvezza, in vista di un’identità più segreta che unisce religioni culture e civiltà ed è già operante nel profondo».

Cosa ci dice sorella pandemia

Roberto Rusconi “Dalla peste mi guardi Iddio. Le epidemie da Mosè a Papa Francesco”, Morcelliana, 2020, pp. 208, euro 16,50.

Quale impronta lascerà la pandemia da Covid 19 alla chiesa cattolica e all’universo cristiano? Probabilmente l’abbandono di ogni residuo di cultura magica e di tolleranza acritica verso la religiosità popolare. Nel chiedere vaccini per tutti e soprattutto per i poveri, papa Francesco, a nome della chiesa intera, professa di credere nell’efficacia della medicina e di non considerare la pandemia come segno di un castigo di Dio per eventuali peccati e degenerazioni dell’umanità (nelle sue varie declinazioni della società secolarizzata, della Chiesa corrotta, dell’Occidente etc.). Non si assegnano spazio e senso sostanziali a processioni, formule magiche, riti riparatori. Inutile rivolgersi a santi specializzati nella lotta a malattie ed epidemie come san Rocco, santo Stefano, san Sebastiano o, peggio, cercare capri espiatori. Con Bergoglio la chiesa sceglie di aderire ad alta voce (è qui la novità) alla fragilità dell’uomo e affidarsi definitivamente alla medicina. Questa adesione era stata preannunciata dalla manifestata, estrema debolezza fisica di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ma questa volta si va oltre la testimonianza: ci si schiera, si sconfessa ogni bigottismo, si professa adesione sincera e soprattutto pubblica a precetti della medicina considerati buoni per l’uomo. È quanto si ricava dal bel saggio di Roberto RusconiDalla peste mi guardi Iddio. Le epidemie da Mosè a papa Francesco” (Morcelliana, pp.208, euro 16.50). Un libro da leggere perché non solo è interessante, ben documentato, scritto con stile agile senza scadere mai nell’approssimazione, ma soprattutto perché l’autore registra con acume e intelligenza di storico il senso profondo di una battaglia che da millenni si svolge nella chiesa: la battaglia dell’adesione radicale e liberatoria al mistero di Gesù veramente uomo e risorto, contro ogni alienante tentazione magica, sia quando questa si manifesta nella limpida buona fede della devozione popolare, sia quando si manifesta nella torbida malafede del potere clericale (da un lato le processioni popolari, dall’altro il potere del “grande inquisitore” di dostoevskijana memoria).

Paolo RANDAZZO

Il Cantico di Roberto Latini a Castrovillari 2017

CASTROVILLARI. Il primo interrogativo che ci visita immediatamente dopo aver visto “Il cantico dei cantici” di Roberto Latini, l’interrogativo più urgente, non riguarda tanto il “come” di questo spettacolo, ma davvero il suo, o i suoi, “perché”: si possono infatti pensare, trovare e poi scrivere moltissime cose sul “come” Latini ha costruito questo suo affascinante lavoro (riferimenti testuali, iconici, elementi spaziali, musicali, stratificazioni, sotto-testi, elementi meta-teatrali), che è andato in scena, in anteprima nazionale, il 3 giugno scorso a Castrovillari (Primavera dei teatri 2017) nella Sala Consiliare, ma la domanda a cui una riflessione critica non può sfuggire è “perché”: perché ha scelto questo testo? Perché lo ha voluto riscrivere scenicamente? Perché proprio il biblico Cantico dei Cantici? Inseguendo quale necessità culturale o politica, quale urgenza? Una domanda, complessa, a cui si può anche non saper o non poter rispondere, ma che non va elusa. Occorre invece, onestamente, perderci un po’ la testa. Perché mai un teatrante italiano, attore, interprete, regista, raffinatissimo performer, amato dal pubblico e dalla critica, geniale persino nel costruire il suo inconfondibile linguaggio scenico, decide di accostarsi a un antico testo ebraico di meravigliosa bellezza composto o formalizzato, secondo l’opinione più diffusa, intorno al IV secolo a.C. (ma probabilmente sulla trama di un vasto e assai più antico patrimonio tradizionale di canti e poesie di argomento erotico) e finito, con non poche difficoltà, nel canone biblico? Perché costruire oggi uno spettacolo su un testo del genere? Quale percorso intellettuale può indurre a questo esito? Latini ci tiene a ricordare che si tratta della quarta tappa del suo progetto Noosfera (dopo Lucignolo, Titanic e Museum: «“noosfera”, dalla reinterpretazione di un concetto legato alla sfera del pensiero umano, sintetizza e definisce una sorta di “coscienza collettiva”») e che, soprattutto, la sua traduzione del testo antico e la costruzione scenica che ne propone partono dal presupposto che questo testo sia totalmente estraneo a qualsiasi contenuto, senso, afflato religioso, mistico o anche solo spirituale. Si lavora su un testo d’amore pieno e carnale tra un uomo e una donna, tra due giovani amanti, un testo antichissimo e (anche) per questo senza tempo, assoluto, un testo del quale si percepisce tutta la potenza dell’ispirazione erotica e si tralascia qualsiasi significazione allegorica che le tradizioni ebraica e cristiana hanno (o avrebbero) proiettato su di esso. La scelta di Latini è chiara, radicale, non ammette repliche o dubbi (che pure sarebbero legittimi, perché magari in duemila anni la tradizione qualcosa di interessante avrà pur detto). Ma perché portare in scena questi versi d’amore, proprio questi, non appare del tutto chiaro. Occorre a questo punto arrendersi, ritornare alla forma, ritornare al “come”, provare a ricostruire dalla stessa evidenza materiale di questo spettacolo un suo senso possibile. C’è un varco che può consentire una risposta: il/la protagonista della messinscena è un dj, un androgino, un clochard che dorme su una panchina e al risveglio, da una postazione radio, declama on air i meravigliosi versi del Cantico, li declama e, forse ancor più e prima che declamarli, li attraversa, li vive, li danza (al suono di una gamma di musiche che va da Raffaella Carrà ai Placebo), ne gioisce, li subisce arrendendosi alla loro primitiva potenza, li accoglie nel proprio corpo sessuato e nella presenza/assenza della persona amata a cui pare rivolgersi e con cui, a tratti, pare dialogare a distanza. Lo straniamento rispetto ad ogni attesa che la tradizione (religiosa, artistica, culturale) avrebbe supportato è totale ed è superfluo dire che si tratta di Latini che interpreta, amplia e approfondisce il mondo poetico e il linguaggio di Latini, nel bene e nel male. Un essere umano dunque: non una ragazza, non un ragazzo, non un uomo, non una donna, non un trans, un essere umano unico, assoluto, autentico, innamorato, autentico perché innamorato. E si parla dell’amore, del suo apparire e del suo impensato deflagrare in una condizione di perturbante alterità, si parla della sua essenza che è onirica e però morde e incide la nostra carne; si parla dell’amore che ci cura e ci ammala allo stesso tempo, che ci salva e ci tiene in vita perché, lui sì, è più forte della morte. Ecco, forse, il senso profondo di questo spettacolo e non era affatto superfluo ribadirlo con la cruda verità della poesia e di un corpo teatrale che dalla poesia sa farsi possedere senza ritegno.

Paolo RANDAZZO

 

Adattamento e regia Roberto Latini,

Musiche e suoni di Gianluca Misiti, luci e tecnica di Max Mugnai, con Roberto Latini. Organizzazione di Nicole Arbelli, foto di Fabio Lovino / Angelo Maggio. Produzione di Fortebraccio Teatro con il sostegno di Armunia Festival – Costa degli Etruschi; con il contributo di MiBACT e Regione Emilia-Romagna.

 

LINK DA DRAMMA.IT

Sira

C’è in “Sira”, l’ultimo spettacolo di Tino Caspanello, una scena in cui i due personaggi della piéce si affrontano fisicamente, lottano con vigore: è una scena teatralmente difficile e potente che, benché sia sapientemente preparata dal climax in cui si dispiega tutta l’azione drammatica, è capace di sorprendere per autenticità e forza di verità. Da che cosa nasce la forza di questa scena e, conseguentemente, la forza di questo lavoro? Dal fatto che essa esplode proprio nel momento in cui ambedue i personaggi rivelano definitivamente il loro essere reciprocamente e contemporaneamente vittima e carnefice l’uno dell’altro. Lo scontro a quel punto diventa necessario e ciò che accade subito dopo è l’altrettanto necessario modificarsi della sostanza umana di quelle figure. Sembra di trovarsi davanti a una perfetta lezione di teatro, a un saggio da manuale di come debba funzionare una buona drammaturgia e certo non è il caso qui di fare citazioni, più o meno colte, a sostegno di queste affermazioni. Lo spettacolo si è visto nella sua forma definitiva domenica sorsa, 25 gennaio, a Messina, nella bellissima ex Chiesa di Santa Maria Alemanna, nel contesto della rassegna “Atto unico” organizzata da Auretta Sterrantino e Vincenzo Quadarella: in scena oltre allo stesso Caspanello (drammaturgo e attore) c’è Tino Calabrò, mentre la regia (pulita, lineare, senza sbavature patetiche) è curata da Cinzia Muscolino. Ad un incrocio qualunque di una qualunque città (lo spazio scenico è realizzato al centro della chiesa e il pubblico lo circonda ai quattro lati) un giovane killer (Calabrò) al suo primo omicidio attende nervosamente d’incontrare la vittima (Caspanello), la sua mano è stata armata dal suo stesso padre che, prima che l’azione cominci, si accerta telefonicamente che il giovane sia pronto e tutto proceda secondo i piani. Al verificarsi dell’incontro il progetto omicida salta immediatamente: la vittima, un professore di scuola divenuto in seguito un giornalista d’inchiesta, è ben consapevole che prima o poi, in conseguenza di una sua inchiesta (relativa ad una strage di mafia), quell’incontro si sarebbe verificato ed è pronto ad affrontare con coraggio il suo destino. E però scopre di conoscere quel ragazzo che lo attende per ucciderlo: è un suo ex alunno, intellettualmente dotato ma eccessivamente introverso e affatto motivato allo studio. Il padre di quel giovane è, con certezza, l’esecutore o il mandante della strage di mafia e il professore-giornalista sa bene che, prima o poi, gli avrebbero fatto pagare con la vita il coraggio dei suoi articoli. Il dialogo che scaturisce è serrato: il giovane killer, di fronte al suo ex professore, perde la determinazione omicida e, riconosciuto (il professore ne ricorda persino il soprannome: ‘U scuru), si pone nella condizione di poter essere denunciato o persino ammazzato; il professore-giornalista, dal canto suo, non può rovinare (né tantomeno uccidere) quel ragazzo per la cui educazione in passato si è tanto impegnato; nessuno dei due è insomma nella condizione che portare a termine quanto deve, ma nessuno dei due può o vuole nemmeno arretrare. La tensione drammatica aumenta fino al compiersi dello scontro fisico, simbolico certo, ma duro e decisivo di cui si è detto sopra. Nessuna morale della favola però, nessun moralismo d’accatto: soltanto puro teatro e lo schianto di due vite destinate a scontrarsi, anche loro malgrado. C’è in tutto ciò quanto basta per poter dire senza esitazioni che si tratta di uno spettacolo da vedere, ma c’è un altro elemento che proietta una luce ulteriore su questo lavoro e lo rende interessante: prima di iniziare lo spettacolo, Caspanello legge un lungo pezzo del Qoelet biblico. Non viene citata esplicitamente la fonte del brano, ma esso è abbastanza riconoscibile nella sua inconfondibile eco sapienziale. Perché questa scelta così impegnativa? È difficile ricostruire il percorso intellettuale e creativo che ha portato Caspanello a porre questo spettacolo all’ombra di una citazione/epigrafe così importante e misteriosa, ma appare evidente (e in questa prospettiva trovano posto possibili consonanze qoeletiche) che lo spettacolo, nel sovrapporsi e nel continuo intrecciarsi delle due prospettive di vittima e carnefice, di male compiuto e di male subito, riflette non soltanto sulla perfetta dinamica teatrale che lega i due personaggi, ma sullo stesso mistero dell’uomo che, nel più totale silenzio di Dio o nell’assenza di qualsiasi dimensione di senso, è capace di ogni abiezione e di ogni nobiltà.

Paolo Randazzo

Link da Dramma.it.

Indagine sulla fede di Giuseppe Ruggieri

Il grande teologo propone un percorso nella storia del racconto dell’Incarnazione di Cristo e del suo dispiegarsi tra mille contraddizioni
Indagine sulla fede di Giuseppe Ruggieri

Giacobbe non indietreggiò, non fu sconfitto e chiese e ottenne anzi dall’uomo misterioso d’esser benedetto. Da quel momento il suo nome fu cambiato in “Israele”, ovvero colui che ha lottato con Dio. Don Giuseppe Ruggieri, tra i più insigni teologi del cattolicesimo contemporaneo, su questo racconto e quasi a partire da esso, ha costruito il suo ultimo saggio Della fede. La certezza, il dubbio, la lotta edito da Carocci.

cover ruggieriUn saggio di grande valore nel quale il teologo affronta il tema della fede cristiana a partire dalla presenza nella storia dell’uomo di un racconto, quello della tradizione ebraica e poi cristiana, che è fondante e, in Cristo, aperto al futuro nell’attesa e nella certezza dell’evento messianico.

Un racconto/evento che però resta eccedente rispetto all’umana capacità di comprensione e che, in questa eccedenza, implica la “lotta” con esso mentre al contempo è capace di assumere positivamente l’altro nella sua assoluta alterità.

Il percorso che Ruggieri propone, senza astrarlo dalla sua personale e complessa vita di fede, è solido e ben ordinato: dalla sostanza storica e non mitologica del racconto al dispiegarsi millenario e fluido del racconto ebraico, dall’Incarnazione di Cristo, in tutta la sua centralità nel contesto del racconto che si apre al futuro, a Paolo di Tarso, dallo spazio del racconto che si apre tra Dio e l’uomo (sia Dio che l’uomo diventano «spazio» l’uno dell’altro) a quell’eccedenza d’amore che rende il racconto cristiano capace di convivere nella pace con gli altri racconti fondanti dell’umanità e rende colui che lo accoglie nella vicenda della propria esistenza, colui che possiede la grazia della fede, capace di accogliere la benedizione di Dio (che è certa), capace di restare uomo fine in fondo senza farsi imprimere il “marchio della bestia”.

Sono straordinarie, in questa sezione, le pagine in cui, leggendo San Paolo, il teologo chiarisce quello che è il problema centrale di questo saggio (anche di questo saggio, dopo il precedente La verità crocifissa), ovvero il rapporto con l’alterità: «…E, nella “mia” lotta personale questo mi si rivela non solo come il nodo centrale della mia esistenza, ma come il problema vero dell’umanità, del suo destino e della sua salvezza. Giacché nel rapporto con l’altro, non solo a livello individuale ma anche collettivo, viene alla luce il senso del Dio di Gesù di Nazareth e quindi il senso ultimo del racconto cristiano».

Si tratta di una vicenda enormemente complessa, intrecciata di santità e sangue versato, di chiusure e di meravigliose aperture, che l’autore sa consegnarci nel suo tragico dispiegarsi, nella fatica e nelle mille e mille contraddizioni della storia della Chiesa: ovvero nel rapporto con gli ebrei e coi pagani, nella nascita del dogma, nella preghiera, nelle smentite del racconto stesso (la fascinazione del denaro, l’accettazione e la razionalizzazione della guerra, l’alleanza col potere, il farsi esso stesso potere e cultura), nell’opera inesausta e inesauribile del custode del racconto (l’eucarestia, che rende attuale il racconto come evento di libertà, il canone degli scritti sacri, che è insieme plurale e unitario, e i poveri che del racconto sono gli eredi privilegiati).

E tuttavia se pure questa vicenda storica risulta assai complessa, ben più misteriosa appare la presenza e l’operatività del racconto nel presente della modernità e della postmodernità, quando la certezza dell’autorità del racconto, della sua verità fondante, viene a scontrarsi con la crisi prima e poi con la definitiva caduta di ogni autorità che sia esterna al soggetto: il tema, che resta centrale nella sua bruciante attualità, è la presenza scandalosa dell’altro che rifiuta di corrisponderci, di accomodarsi a noi e che pure nel racconto resta destinatario certo di benedizione.

Ruggieri utilizza a questo punto la categoria dell’Hypomoné: non solo “pazienza” o “perseveranza”, ma, seguendo quasi la lettera dell’etimologia greca, “restar sotto” e quindi sostenere, farsi carico comunque.

«Chi spera nel futuro del carico che porta, non lo getta via e non lo abbandona, ma ci resta sotto. Hypomoné è l’atteggiamento dettato dal racconto al cristiano che spera, per tutti gli uomini e le donne che gli è dato di incontrare, e per tutte le cose che gli è dato di sperimentare, la pace, la gloria e la bellezza della creazione trasfigurata, che accetta quindi, facendosene carico, di portare a loro diversità rispetto al regno, in un’agonia affettuosa che tiene compagnia al Cristo, come diceva Pascal, fino alla fine del mondo».

Paolo Randazzo

 

Link da Europa

 

Ebraismo, il dizionario “innamorato” di Attali

Conoscere per non dimenticare: un saggio ricco di informazioni culturali, storiche e teologiche, filtrate dall’esperienza personale del poliedrico economista.

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Oggi, mentre leggiamo sui giornali di odiose e oscene provocazioni negazioniste indirizzate alla comunità ebraica di Roma, si confermano come urgenti e necessari per il vivere civile e per la stessa sopravvivenza di ciò che chiamiamo Occidente i doveri della memoria e della conoscenza.

Doveri che includono e superano quello di ricordare la Shoah e a cui risponde, con acume e affettuosa leggerezza, Jacques Attali, l’economista socialista, consigliere di stato e banchiere francese che ha legato tra l’altro il suo nome alla commissione speciale per lo sviluppo voluta nel 2007 da Sarkozy, col suo Dizionario innamorato dell’ebraismo (Fazi editore): «Da parte mia io, nato ebreo nell’Algeria francese appena liberata dai nazisti e dai loro tirapiedi francesi grazie allo sbarco delle truppe americane, nel momento in cui tanti altri morivano in Europa, avrei potuto dimenticare me stesso, scomparire nella società francese come hanno fatto tanti israeliti francesi il cui ebraismo non è oggigiorno una dimensione ingombrante della loro personalità. Io ho scelto di non farlo. (…) Perché credo che ciascuno debba render conto di ciò che ha ricevuto e debba trasmetterlo (…) e anche perché il giudaismo è inseparabile dalle persone che mi sono più care e ho il dovere di essere leale nei loro confronti, di trasmettere ciò che ho ricevuto da loro».

Bastano queste poche righe della corposa e densa introduzione a questo libro per capire il senso delle cose di cui si parla: ovvero il dovere (dovere di tutti e per tutti gli uomini liberi) di non dimenticare la vicenda millenaria e le tragedie dell’ebraismo e di conoscerle concedendo spazio e ascolto ai racconti che di esso si fanno e che innervano la nostra cultura.Attali copertina

Racconti che tuttavia, non sono soltanto mitologia culturalmente fondativa, ma hanno sempre avuto, e continuano per altro ad avere, il pregio di un’affettività interna che tramanda efficacemente il senso di una grande comunità che ha sofferto ma continua a mantenersi salda nei suoi principi.

Ecco perché dizionario “innamorato”: perché non si può parlare davvero, con autenticità e senza luoghi comuni e banalità, se non di ciò che si ama. Ed ecco perché le pagine di questo libro sono interessanti: perché non trasmettono soltanto informazioni (le principali istituzioni culturali e cultuali dell’ebraismo nonché le storie degli eroi biblici e dell’intera storia giudaica), ma raccontano il senso di una cultura che malgrado tutto ha superato di secolo in secolo la minaccia del male, il rischio di scomparire e s’è preservata nel calore di una straordinaria e tormentata fedeltà amorosa.

Nel raccontare del biblico Qoelet e del dovere dell’uomo di confrontarsi col tempo, Attali conclude: «(…resta da) imparare ad accettarsi come un anello nella catena della storia della specie, con l’onere di trasmettere alle generazioni successive un mondo un po’ migliore da quello ricevuto dai nostri padri».

Paolo Randazzo

Link da Europa

 

Le radici dell’ebraismo di padre in figlia

Amos OZ e Fania SALZBERGER, “Gli Ebrei e le parole”,

Feltrinelli, 2013, pp. 237.

“Gli ebrei e le parole” di Amos Oz e Fania Oz-Salzbeger, edito in Italia da Feltrinelli, è un libro che, a una lettura superficiale, può persino infastidire tanto è zeppo di storie, vicende, racconti, aneddoti, witze, episodi e personaggi storici, figure bibliche e/o più o meno mitiche. Poi però occorre ragionarci su, mettere a fuoco il filo che tiene insieme questa abbondanza di storie ed allora, già a partire dalla doppia prospettiva (storica e meta-testuale) da cui si dispiega, esso assume un senso fecondo e capace di parlare anche a lettori non ebrei. L’assunto è chiaro ed è esposto con nettezza sin dall’inizio: quella degli ebrei non è una tradizione basata su un continuum etnico o politico, su un’identità culturale (o religiosa) forte, gelosamente custodita e rivendicata, no, quella ebraica è una cultura “testuale”. «La continuità ebraica si fonda da sempre su parole dette e scritte, su un labirinto di interpretazioni, dibattiti e dissensi in continua espansione, su una relazione umana unica – si legge ad apertura di volume -. In sinagoga, a scuola, ma soprattutto a casa ha coinvolto attivamente nel dialogo due o tre generazioni. La nostra è una lingua non di sangue ma di testo». ozDetta così la faccenda è abbastanza semplice e la miriade di storie (attinte dalla Bibbia anzitutto, ma anche da ogni epoca, contesto e segmento dei tre millenni di storia ebraica) che, con competente e divertita leggerezza, vengono riproposte dai due autori sembra star lì a dimostrare l’assunto. Storie che, per altro, vengono declinate su quattro versanti di senso: il continuum testuale della cultura ebraica, la rilevanza in essa della presenza femminile, la concezione (o, meglio, le concezioni) del tempo e il rapporto tra individuo e comunità. Ma, come si diceva, è la prospettiva che rende interessante l’operazione, o, meglio l’incrociarsi dialogico di due prospettive: Oz è un narratore, Fania Salzberger, sua figlia, è una storica ed è appunto l’incrociarsi continuo, fluido e consapevole di queste due prospettive («il narratore di noi due… lo storico di noi due») a far sì che questo libro offra al lettore una bellissima e nient’affatto ingenua riflessione sul senso della storia e delle identità culturali che nella storia si sono sviluppate e continuano a svilupparsi. In qualche modo viene in mente Aristotele laddove distingueva tra la narrazione dello storico, legata alla comprensione, all’interpretazione e al racconto di una vicenda particolare, e la narrazione d’arte, che è “cosa più filosofica” (philosophoteron) perché nel raccontare guarda al senso universale delle vicende storiche. Ecco, nel progredire di questo dialogo tra lo scrittore e la storica, il particolare della storia ebraica, compresa la sua millenaria fedeltà a un patrimonio di racconti che si ripropongono e rinnovano, e l’universale di un atteggiamento di apertura critica (talvolta persino iper-critica e petulante), ad ogni possibile interpretazione e contestazione sembra suggerire che l’identità ebraica può definirsi, oltre che come identità testuale, come coscienza critica (laica e liberale) di un mondo che, per sopravvivere e prosperare in pace, deve (ancora e continuamente) liberarsi da ogni tentazione assolutistica.

PAOLO RANDAZZO

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