Identità/alterità, Settis….

ATTI DEL CONVEGNO, MITTELFEST 2001, INAUGURAZIONE

CIVIDALE DEL FRIULI, LUGLIO 2001, CHIESA DI SAN FRANCESCO

IN COPRODUZIONE CON LA SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA

Introduzione SALVATORE SETTIS

Il maestro Carlo de Incontrera, che ha invitato la Scuola Normale Superiore di Pisa a presentare, nel quadro di questo Mittelfest, qualche riflessione sulla musica degli antichi Greci, conosce benissimo i rischi che correva se noi avessimo accettato di venire a parlare qui a Cividale. Sono due rischi in qualche modo opposti, e legati a quello che la Normale è e a quello che essa non è. La Normale ‘non è’ un istituto di studi musicali, e pertanto parlare davanti a un pubblico con forte e marcata cultura musicologica come quello di Cividale è un rischio, specialmente per me che di musica non so proprio nulla. D’altra parte, la Normale è un luogo di segnalata e alta tradizione in molti campi del sapere, fra cui proprio gli studi sul mondo antico, greco e romano: e pertanto c’è il rischio che quello che vi presenteremo possa eccedere in specialismo. Ma il maestro de Incontrera sa anche che la Normale ha un fortissimo interesse per la musica e la sua storia, e infatti organizza da trent’anni la serie “I concerti della Normale”, offerti non solo ai normalisti ma alla città di Pisa, e organizzati prima con la consulenza del mº Piero Farulli e da alcuni anni proprio con l’aiuto di Carlo de Incontrera. Il quale sa anche che proprio in Normale è stato progettato e diretto l’ultimo grande sforzo di sintesi interpretativa della cultura greca, un’opera in cinque volumi pubblicata da Einaudi col titolo “I Greci. Storia Arte Cultura Società”; un’opera il cui successo si misura dal solo fatto che a partire dall’anno prossimo verrà integralmente tradotta in tedesco, e subito dopo in inglese. Se abbiamo accettato di partecipare, è stato dunque non solo per la gioia di essere qui con voi oggi, ma anche per l’interesse che abbiamo al confronto fra le nostre ricerche specialistiche e un pubblico più vasto, il cui profilo culturale è tale da garantire non solo e non tanto l’attenzione al messaggio che intendiamo dare, quanto il controllo della sua qualità. Di tutti, quello che meno conosce il tema proposto sono proprio io: tutto ciò che potrò fare sarà dunque introdurre gli altri relatori con qualche riflessione su due punti diversi e convergenti: da un lato, sul ruolo della civiltà greca nella storia recente dell’Europa e nella stessa idea di una civiltà comune europea; dall’altro, sul ruolo della musica nella cultura greca antica.

Cominciamo dal primo punto. Vorrei affrontarlo partendo da una piccola serie di citazioni, scelte a caso fra migliaia (letteralmente) di testi simili, che rivendicano una discendenza dai Greci delle nostre coordinate culturali. Cominciamo dalla famosa sentenza di Hegel, secondo cui “Al nome Grecia l’uomo colto europeo subito si sente in patria”. Con spirito non troppo diverso, Hannah Arendt poteva sostenere che né la rivoluzione americana né quella francese sarebbero mai state possibili senza l’esempio che veniva dall’antichità classica, e Popper richiamava i filosofi presocratici come modello della dinamica moderna del pensiero scientifico fra congettura e confutazione. John Stuart Mill scrisse che “la battaglia di Maratona, anche come evento della storia inglese, è più importante della battaglia di Hastings. Se in quel remoto giorno il risultato dello scontro fosse stato diverso (se i Greci non avessero vinto), Britanni e Sassoni forse vagherebbero ancora per le selve”. In queste e mille altre citazioni, i Greci compaiono con significato ‘fondante’: e non solo di risultati o di azioni o di memorie, ma di ‘valori’ ancora attuali. Lo vediamo ancor meglio nel contrasto fra due altre citazioni, le ultime: da un lato Gilbert Murray, Regius Professor di greco a Oxford, che assegnava ai Greci “la ricerca di Verità, Libertà, Bellezza, Ragione ed Eccellenza nella vita individuale, e di fratellanza nella vita internazionale”, e più in generale l’origine stessa del “Pensiero Equilibrato”; dall’altro lato, Albert Hofmann (noto come “il padre dell’LSD”, che proprio in questi anni ha argomentato in favore degli stimolatori della psiche sostenendo che anche i Greci, nei misteri di Eleusi, usassero un allucinogeno simile all’LSD. Tutti questi esempi sono accomunati da una tendenza implicita, tanto più potentemente operativa quanto più essa vien data per scontata: la tendenza a considerare i Greci come la radice ultima e unica di tutta la civiltà “occidentale”, e ‘dunque’ aventi titolo a legittimare valori e pratiche del nostro tempo, anche opposte fra loro quanto lo sono il “pensiero equilibrato” e gli “stati alterati di coscienza”. Si dà così per dimostrato il valore preternazionale e fondativo della cultura greca, e la storia dei Greci assume lo status di storia universale, non solo necessaria a intendere il mondo moderno, ma anche fonte di legittimazione e di ispirazione per il suo (per il nostro) futuro. I Greci, come “primi inventori” della filosofia e dell’arte, della scienza e della bellezza; i Greci, che seppero sperimentare sopra di sé in forma originaria tutte le passioni del mondo e dell’uomo, quelle di Edipo e di Medea, di Antigone e di Odisseo. Un paesaggio culturale fatto di sentenze arcane e pregnanti pronunciate una volta per tutte, d’impeccabili monumenti contro un cielo sempre azzurro dietro il quale s’indovinano dèi benigni pronti a incarnarsi in bronzi e in marmi di bellezza irraggiungibile. Una civiltà popolata di modelli e di archetipi, di pietre di fondazione e di cifre universali, di motti delfici e di colonne doriche, di atleti che s’incoronano e di artisti dediti alla Bellezza, di passioni politiche da cui emerge una polis cristallina e una democrazia che dà spazio alla libertà e all’individuo, di filosofi che tracciano con stilo implacabile l’agenda di tutte le filosofie possibili. Paradossalmente, una tale immagine dei Greci resiste, e anzi si consolida, proprio mentre il posto della cultura classica nei percorsi educativi e nella cultura generale sembra restringersi ogni giorno di più. Meno sappiamo il greco, più parliamo dei Greci. Quanto più filosofi e saggisti perdono la capacità di controllare criticamente in prima persona lo spessore e il senso originario dei testi della cultura greca, tanto più marcatamente essa diventa, in uno spirito tutto “postmoderno”, il serbatoio ideale a cui attingere elementi staccati, da rimontare poi ad arbitrio in più o meno gratuiti collages. La patria di quello che con linguaggio degno di un mito di fondazione si volle chiamare “miracolo greco” è diventata così come un retrobottega da cui prelevare a piacimento questo o quell’arnese, quasi fosse attrezzeria di teatro da riciclare di continuo. Ma quanto più arbitrari e meno colti sono questi esercizi di accanito citazionismo, tanto più essi innalzano la cultura greca sopra un piedistallo irraggiungibile, estirpandola dalla storia per proiettarla su un piano che si pretende “universale”.

Non è questa l’immagine dei Greci che vogliamo oggi proporvi. Come un monumento provato dagli anni, essa è infatti attraversata da crepe numerose e profonde. Per esempio, se vogliamo simboleggiare il carattere fondante della civiltà greca nella giornata di Maratona, lo identifichiamo implicitamente con una vittoria dei Greci (leggi: degli Europei) sui Persiani, che stanno qui per un Oriente indeterminato e statico, l’ “altro” -perennemente uguale a se stesso rispetto a un’Europa caratterizzata, a partire dalla grecità, da un accentuato dinamismo e da un continuo progresso; e per questo radice e madre della modernità. Formulazioni come queste ci appaiono oggi non solo strettamente eurocentriche, ma anche limitative e “datate”; “datate”, intendo, in quanto coestensive a una concezione della civiltà europea come culminazione d’ogni altra, e pertanto legittimata al colonialismo, all’annessione, alla “missione civilizzatrice”.

L’opposizione Greci/barbari veniva in tal modo a tradursi in quella Europa/”altri”, riattualizzata e proiettata ora verso le Americhe, ora in Asia o in Africa, ribadendo l’identità fra un “noi” orgogliosamente europeo e i Greci, padri e maestri di una stessa civiltà. Proprio questa identificazione, che sembrò garantire alla cultura greca un ruolo perpetuamente vitale nel mondo moderno -quasi dovesse diffondervisi con le armi, le merci e le tecniche dell’Occidente-, suona oggi al contrario come un canto funebre. Quale può essere il posto dei Greci in un mondo caratterizzato sempre di più dalla mescolanza dei popoli e delle culture, dalla condanna dell’imperialismo e dalla fine delle ideologie, dalla fiera rivendicazione delle identità etniche e nazionali e delle tradizioni locali contro ogni tentazione “annessionistica”?

Che senso ha cercare radici “comuni”, quando tutti sembrano piuttosto impegnati a distinguere le proprie da quelle del vicino? Come possiamo vantarci di aver vinto sugli “altri” a Maratona senza pensare all’Algeria o al Vietnam? Con quale ostinata presunzione potremmo mai chiedere ai Cinesi o agli Indiani di riconoscersi nei Greci, implicandone l’identità con un “noi” tutto europeo, senza offrire in cambio il desiderio di identificarci, noi, nella loro antichità? Se quella è la nostra immagine dei Greci, se quello è il loro ruolo nella “storia universale” che vogliamo costruire, riducendo la storia universale a storia dell’Europa e dell’espansione europea, allora davvero i Greci sono destinati a diventare il primo bersaglio di una cultura vicina a soccombere, il prototipo dei dead white males da uccidere domani.

Dobbiamo ricordarci, al contrario, che i Greci non sempre innalzarono monumenti e pronunciarono detti memorabili, nè furono indaffarati a fondare la coscienza dell’Europa moderna per distinzione dall’Oriente, ma anzi nell’Oriente si mossero con gioia e disinvoltura e ansia di scoperta, cercandovi merci e miti e saggezza, imparando e insegnando. Li troviamo sulle coste del Mar Nero o della Spagna, in Sicilia o in India, a costruire un’infinita varietà di culture locali, o a immaginare viaggi dei loro eroi oltre le colonne d’Ercole; sempre curiosi di vedere e di conoscere, con quello spirito che un sacerdote egizio, parlando con Solone, riconobbe come una loro caratteristica: “un Greco vecchio non esiste, voi Greci siete sempre fanciulli” (lo racconta Platone nel Timeo ). Li troveremo sempre pronti a “ibridizzarsi” con le civiltà e i popoli che incontravano, ponendo e ricevendone domande, creando oggetti culturali a volte davvero assai poco “classici”. Potremo, per questa strada, apprezzarli di più e meglio proprio sentendoli meno “uguali a noi”, più “altri”, più “stranieri”. Questo nuovo processo di comprensione, quale è in corso ai livelli più alti degli studi specialistici, significa relativizzare la compattezza della civiltà greca, significa evidenziarne i debiti e i contatti con altre culture e le numerose varianti regionali; significa, in ultimo, incrinare profondamente, fino a distruggerla, quella “rotonda” classicità a cui pure si ancorarono tanti discorsi e tanti progetti della storia e della cultura moderna. Dovremo porre in rilievo l’‘alterità’ dei Greci rispetto alla nostra cultura (quanto sia diversa la loro dalla nostra libertà, la loro dalla nostra politica, la loro dalla nostra uguaglianza), ma anche analizzare di volta in volta le ragioni per cui, anziché riconoscerne l’alterità, si è preferito così spesso costruirne un’identità fittizia con “noi”. Ogni volta che lo si è fatto non è stato mai per caso, bensì rispetto a una posta in gioco estranea, come è ovvio, ai Greci, alle loro preoccupazioni e pensieri; e costantemente propria, invece, di questo o di quell’altro “noi”: perciò è stato ed è possibile invocare l’esempio greco per ragioni assolutamente opposte fra loro. Perciò le ragioni di quelle identificazioni aiuteranno anche a intendere l’uno o l’altro “noi” di volta in volta in azione, che sia in Germania, in Italia o in America: identità e alterità entreranno in gioco quasi a ogni passo, in perpetua tensione fra loro. Insomma, i Greci senza miracolo saranno molto più interessanti dei Greci del “miracolo”. Forse anche la loro musica ci apparirà più interessante e ricca di spunti se non la vedremo come una proiezione all’indietro della musica europea, ma nel contesto delle pratiche musicali del Mediterraneo orientale, greco e non-greco.

Vengo così al mio secondo punto. Quale era il ruolo della musica nella civiltà greca? Una premessa è necessaria: ‘tutto’ quello che sappiamo dei Greci è filtrato attraverso il gigantesco naufragio della maggior parte della loro “produzione culturale”. I testi letterari che abbiamo sono forse il 5, forse il 10 per cento di quelli che si potevano trovare nelle biblioteche di Pergamo o di Alessandria; se passiamo alle arti figurative, la pittura, che vi aveva un ruolo centralissimo (basti pensare ai nomi di Apelle o di Parrasio), è interamente perduta; quanto alla scultura, i Greci avevano ben chiara una gerarchia dei materiali secondo cui la scultura in bronzo era considerata più “nobile” e pregiata di quella in marmo, ma di bronzi greci ne abbiamo pochissimi, meno di cento, quando sappiamo che nella sola Olimpia ce n’erano molte migliaia; quanto alle sculture in marmo, non ne abbiamo che una minima parte. Dell’intero patrimonio figurativo dell’antichità, in altri termini, abbiamo oggi probabilmente meno dell’1-2 per cento. Con la musica, le cose stanno ancora peggio: i resti che ne abbiamo sono certamente molto, molto meno dell’1 per mille. È per porre rimedio a questa documentazione così drammaticamente lacunosa che gli studiosi del mondo antico hanno elaborato negli ultimi secoli le sofisticate tecniche e metodologie della filologia testuale e dell’archeologia, finalizzate a ricostituire un quadro meno incompleto della civiltà antica, della sua cultura letteraria e artistica come della sua storia politica ed economica e della sua cultura “materiale” (gli oggetti della vita quotidiana). Si può anche dire che l’estrema lacunosità della documentazione ha giocato come un potente stimolo all’interpretazione, obbligando a mettere a punto strategie interpretative non solo diverse, ma talora opposte fra loro. Ma è importante osservare che, al di là delle perdite e delle lacune, quello che più si è modificato con l’inesorabile trascorrere del tempo è proprio l’immagine generale della cultura greca. Le enormi perdite di documentazione hanno infatti provocato una ‘dislocazione della percezione’ dei Greci in aree estremamente significative. Farò solo due esempi. Se c’è qualcosa che a tutti viene in mente parlando dei Greci, è l’immagine di un tempio (come il Partenone o i templi di Paestum o di Agrigento), o di una scultura, come i marmi del Partenone al British Museum, o il Laocoonte in Vaticano. Sono immagini ‘monocrome’, dominate dal candore del marmo delle qualità più pregiate: eppure, l’architettura e la scultura greca erano coloratissime, arricchite di una policromia vivace e multiforme, di cui solo un limitato numero di sculture reca una qualche pallida traccia. Immaginiamo di entrare in un grande museo di scultura antica, per esempio ai Musei Vaticani, e di trovarci in una grande sala con centinaia di sculture bianchissime, di quel bianco abbagliante che tanto appartiene alla più comune immagine della classicità. Chiudiamo gli occhi per un istante, immaginiamo le carni degli Apolli e delle Veneri colorarsi come d’incanto, colorarsi i loro panneggi, i loro capelli, i tronchi d’albero a cui a volte si appoggiano, i serpenti che stringono fra le loro spire Laocoonte e i suoi figli. Ci parrà, se riapriamo gli occhi davanti a uno spettacolo tanto mutato, di essere in un’altra dimensione, “non-classica”: ebbene, è solo in questa dimensione sorprendentemente, quasi fastidiosamente estranea, che possiamo riconoscere l’autentico “colore” della grecità. Lo stesso accade coi bronzi: siamo così abituati a vedere i bronzi antichi con la patina verdastra creata dai secoli di abbandono, che tutta la scultura in bronzo europea, dal Rinascimento in qua, ha adottato ‘quel’ verde come il colore del bronzo. Eppure, sappiamo che i bronzi antichi erano, invece, lucidi e splendenti, di un colore dorato quasi più vicino all’oro che alla ‘nostra’ immagine del bronzo; che quelle statue sorridevano da labbra di rame rossastro, mostrando denti d’argento; che i loro occhi erano di pietre e vetri colorati. Un’immagine, per la sua violenta policromia, che ci appare quasi “barbarica”, per contrasto alla monocroma compostezza dei bronzi come li vediamo nei musei: ma quell’immagine violenta ed estranea, così difficile da accettare, è la sola immagine autentica dell’arte greca.

Non diversamente stanno le cose nella musica greca. Qui, come ho detto, la perdita della documentazione è tanto vasta e radicale da farcene dimenticare perfino l’esistenza. Quasi non sappiamo più quanto profondamente la musica permeasse ogni aspetto della vita pubblica e privata dei Greci; quasi abbiamo dimenticato che le tragedie di Eschilo Sofocle Euripide erano drammi in musica, e che quando leggiamo Pindaro e gli altri poeti lirici dobbiamo immaginare i loro testi non “accompagnati” dalla musica, ma ‘intrisi’ di musica, pensati con la musica e per la musica (visto che l’autore della musica, dei testi e delle danze era di solito la stessa persona, quasi in un grandioso e originario Gesamtkunstwerk). È un’immagine drammaticamente perduta per sempre: come la scultura greca, nata policroma, è “diventata” monocroma, così la parola poetica greca, nata come squisitamente e intimamente musicale, ha perduto per sempre la propria “colonna sonora”. Il potere della musica nella città greca era ritenuto così grande, che i diversi generi della musica furono non solo codificati, ma anche associati a valori etici e civici che si ritennero ‘costitutivi’ della natura stessa del cittadino, della vita associata nella polis, del rapporto fra le varie generazioni all’interno della società. Si spiega così come Platone abbia tanto insistito (in particolare nella Repubblica e nelle Leggi ) sulla necessità di codificare la musica e la danza, e di impedire e punire le innovazioni troppo audaci, considerandole distruttive per la vita politica della città. Si spiega così come la musica non vi fosse intesa come qualcosa di aggiuntivo, un’arte fra le altre, ma come quella che, coinvolgendo emotivamente più di ogni altra, doveva aiutare a comprendere le altre; e come nei testi antichi è molto più facile trovare il linguaggio musicale, o metafore tratte dalla pratica musicale, per spiegare le arti figurative, piuttosto che il contrario. Un quadro come questo, del quale le relazioni che seguiranno vi offriranno altri e più ricchi elementi, ha un’enorme potenza evocativa, in nulla diminuita dalla quasi totale assenza di documentazione. Basta a dimostrarlo il fatto stesso che un genere musicale centrale nella tradizione europea, l’opera, sia nato all’origine proprio come un tentativo di “ricreare” la tragedia greca nella sua intima commistione di parola e musica. Se riflettiamo a questa origine dell’opera, possiamo ben comprendere quanto anche le assenze nella documentazione, le perdite anche dolorose, possano alla fine provocare una vitale tensione creativa; quanto persino i processi di distruzione possano, in una storia delle civiltà vista nel lungo periodo, innescare un opposto e fecondo processo produttivo. Ma che cosa può darci, ‘oggi’, la memoria della musica greca antica? Era, essa, più simile alla “nostra”, o a musiche “altre” (per esempio “orientali”)? Come possiamo interpretare, in senso non solo filologico, ma propriamente musicale, le pochissime tracce di partiture musicali che ci sono rimaste? Torna qui la tensione che abbiamo visto fra “identità” e “alterità” dei Greci, e lo si potrebbe mostrare mettendo a confronto le rare esecuzioni della musica greca antica conservata, che ora cercano di rendercela più accettabile col farla più simile a musica a noi già familiare, e ora invece puntano sulla sua totale diversità.

Vorrei concludere con un’ultima citazione, che ‘non’ riguarda i Greci, ma riguarda la musica. La prima registrazione fonografica di un’esecuzione musicale (il pianista era un bambino di undici anni) fu fatta nello studio di Thomas Edison nel 1887, e tutti sappiamo quanta strada si sia fatta da allora ai nostri CD. Ma già nel 1888, l’editoriale (non firmato) dello Spectator si preoccupava del fatto che ascoltare le esecuzioni degli altri potesse limitare la creatività dei musicisti del futuro. “L’ingegnosità scientifica del nostro tempo -scrive l’editorialista- finirà col creare nel mondo che ci lasceremo dietro un “troppo pieno”: forse lasceremo di noi ‘troppo’, e con ciò finiremo col limitare la libera crescita della nostra posterità”. Non intendo, concludendo con questa citazione, implicare che è meglio che la musica greca antica sia andata perduta nei gorghi della storia; ma solo suggerirvi di riflettere sulla tensione drammatica fra quello che sappiamo del nostro passato e quello che ne ignoriamo (la più gran parte); su quanto possa essere fecondo e creativo il nostro desiderio di riempire le lacune della documentazione, l’impulso irresistibile a interrogarci su quello che abbiamo perduto per sempre.


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