A. Semu tutti devoti tutti – Zappalà danza

CATANIA. “A. Semu tutti devoti tutti?” rappresenta un episodio importante della vicenda artistica di Roberto Zappalà. Così dieci anni fa, quando fu presentato per la prima volta, così anche oggi, riallestito e presentato al pubblico del Teatro Verga nel contesto della stagione in corso dello Stabile Etneo. Perché importante? Perché, al di là del pur straordinario dato formale, si tratta sostanzialmente di una una messa a fuoco concettuale, di un chiarimento definitivo, di un prender le misure e mettere le giuste distanze tra l’intelligenza creativa, potente, feconda, raffinata e cosmopolita di Roberto Zappalà e di tutto il suo ensemble e il magma incandescente della sua Catania, della cultura popolare in cui è cresciuto e che in qualche modo, madre e matrigna, continua ad abbracciarlo. Un chiarimento positivo, più che affettuoso ma al contempo severo e senza ambiguità, un chiarimento che si dispiega su una linea di faglia molto antica, tormentata, delicata: il culto antico e rovente di Sant’Agata, ovvero ciò che nessun catanese potrebbe mettere agevolmente in discussione criticamente continuando a definirsi tale. Un chiarimento con una parte ancestrale del nostro essere, una parte che magari sottovalutiamo, ma che si ripresenta viva e vibrante ogni volta che ci troviamo immersi in una di quelle masse di fedeli che rinnovano l’antichissima religiosità popolare (pagana e cristiana insieme) del Mediterraneo. Una religiosità rovente, impura, feroce, capace di accogliere nel suo ventre largo il bene e il male in ogni possibile declinazione. Il concept di questo spettacolo nasce dieci anni fa quando Zappalà decide di riflettere sulla vicenda del controllo mafioso di ampi segmenti dell’organizzazione pratica della festa di Sant’Agata (le bancarelle, la cera delle candele, le scommesse clandestine). Un controllo accettato spesso supinamente dal popolo, quasi come un fatto normale. Una sottocultura malata e mafiosa che sporca ancora – come anche alcuni fatti di quest’anno hanno dimostrato (fatta salva la determinata e coraggiosa reazione del vescovo) – un culto che invece è intriso non solo di sincera pietas religiosa, ma anche di grande partecipazione e teatralità barocca. Il tutto scritto (e oggi riscritto e riallestito) con i segni forti di una danza che si apre e vive e respira nei corpi e nei movimenti dei danzatori (Adriano Coletta, Alain El Sakhawi, Salvatore Romania, Fernando Roland Ferrer, Antoine Roux-Briffaud, Massimo Trombetta, il nuovo e giovane Alberto Gnola), nella loro tensione muscolare, nella lotta, nel corpo abbandonato, sensuale e mistico, totalmente e meravigliosamente nudo, di Maud De La Purification (ma in altre repliche di Valeria Zampardi), che è mosso in scena dai danzatori senza che mai possa toccare terra: un corpo che è sogno, desiderio, fantasma, fatica, opera d’arte. Sostanziale appare ancora l’apporto drammaturgico, in senso ampio, di Nello Calabrò: «È vero che siete innocui singolarmente e che imbarbarite nella folla? Diventate crudeli se costretti dalle circostanze?… Non è forse scritto? la mia casa sarà riguardata come casa di preghiera per tutte le genti. Chi ne ha fatto una caverna di ladri? una spelonca di ladri, una caverna di briganti…».E ancora, a far da contrappunto alla danza, a riempirne le vibrazioni, a inseguirne o anticiparne i percorsi, ecco le musiche raffinate, ma concrete e carnali anch’esse, dell’ensemble de “I Lautari” presenti in scena (Peppe Nicotra, Puccio Castrogiovanni e Salvo Farruggio). Un magma incandescente questo spettacolo in cui, se pur si conferma la presenza di alcuni elementi di debolezza (uno su tutti la chiusura con il video di Carmen Consoli), il segno di maggiore interesse appare senza dubbio l’accresciuta maturità dei danzatori che dopo ben dieci anni lo reinterpretano con una vigoria, un’intelligenza del gesto e una solidità artistica davvero straordinarie. Doti che Zappalà ha saputo cogliere di nuovo e mettere a frutto da par suo. Visto il 6 Febbraio al Teatro Verga di Catania.

Paolo Randazzo

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A. Semu tutti devoti tutti”, 3° tappa dal progetto “re-mapping Sicily” coreografia, regia, scene e luci di Roberto Zappalà; musica originale (eseguita dal vivo) di Puccio Castrogiovanni (Lautari); costumi di Marella Ferrera e Roberto Zappalà; drammaturgia di Nello Calabrò e Roberto Zappalà; testi di Nello Calabrò; realizzazione scene e costumi e assistenza Debora Privitera.
Interpretazione e collaborazione dei danzatori: Adriano Coletta, Maud del La Purification
Alain El Sakhawi, Alberto Gnola, Salvatore Romania, Antoine Roux-Briffaud Fernando Roldan Ferrer, Massimo Trombetta, Valeriaa Zampardi.  Musicisti: Peppe Nicotra, basso, Puccio Castrogiovanni, corde, marranzani e fisarmonica, Salvo Farruggio, percussioni, Peppe Nicotra, chitarre
Produzione Teatro Stabile di Catania, Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza, Centro di Produzione della Danza, in collaborazione con il Festival MilanOltre. Spettacolo vincitore del premio Danza&Danza 2009 come miglior spettacolo italiano. Crediti fotografici: Serena Nicoletti.

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Aldes, danza: In girum imus nocte et consumimur igni

CATANIA. Ci sono spettacoli perfettamente formalizzati ma non chiusi: non raccontano una storia definita, non l’attraversano, non la riflettono, piuttosto attirano lo spettatore in un campo più o meno ampio di sensi, di simboli, di significazioni e lì lo lasciano a smarrirsi, a interrogarsi, a ritrovarsi. Un campo, si badi bene, ben pensato e perfettamente costruito e delimitato dal magistero artistico dell’autore o – come in questo caso – dell’ensemble. È quanto vien fatto di pensare in relazione a In girum imus nocte et consumimur igni, il misterioso spettacolo di danza di Roberto Castello e della sua Compagnia Aldes, che si è visto a Scenario Pubblico, a Catania, il 19 gennaio scorso. Si tratta di un lavoro del 2015 ma vivo, vibrante, potente, ancora straordinariamente capace di parlarci. In scena a danzare ci sono Mariano Nieddu, Stefano Questorio, Giselda Ranieri, Ilenia Romano; le luci, i costumi e la musica soprattutto (minimalista, ossessiva, fondamentale nella concezione di questo lavoro), sono dello stesso Castello. Uno spettacolo misterioso, circolare nella sua apparente immobilità, ipnotico nel ritmico dispiegarsi dei quadri viventi, dei movimenti, delle cellule coreografiche e del tappeto sonoro. È evidente che va in questa direzione anche la scelta del titolo (quel palindromo misterioso e antichissimo che sembra alludere, forse iniziaticamente, alla caducità della vita come ad uno stabile e circolare susseguirsi di bagliori che si consumano bruciando nel breve volgere di una notte). E ancora, si tratta di uno spettacolo “numinoso”, come direbbero gli antropologi: numinoso perché, negli infinitesimali spazi vuoti, bui e/o silenziosi che le cellule ritmiche e coreografiche implicano nel loro avvicendarsi, s’inseriscono come divinità bizzarre e sotterrane, necessari frammenti di senso e umanità che poi si rivelano per bagliori e illuminazioni e rendono intellegibile questo lavoro: indirizzano, suggeriscono legami segreti, parentele artistiche più o meno scoperte (esperienze internazionali di danza contemporanea e di teatro, la pittura dei fiamminghi, il cinema in bianco e nero, esperienze di graphic novel), rendono evidente la dimensione dell’assoluta mancanza di senso in cui si trova ad essere tragicamente gettata l’umanità, l’impossibilità oggettiva della speranza nella storia dell’uomo, la necessità di una dimensione minimale e fuggevole della gioia, l’impossibilità del cambiamento se non come fragile illusione necessaria prima del prossimo naufragio.

 

Di Roberto Castello/ALDES in collaborazione con la Compagnia. Interpreti: Mariano Nieddu, Stefano Questorio, Giselda Ranieri, Ilenia Romano; luci, musica, costumi di Roberto Castello. Assistente: Alessandra Moretti; costumi realizzati da Sartoria Fiorentina, Csilla Evinger. Produzione: ALDES, con il sostegno di: MiBACT/Direzione Generale Spettacolo dal vivo, Regione Toscana/Sistema Regionale dello Spettacolo.

Crediti fotografici: Paolo Porto, Cristian Rubbio, AlessandroColazzo.

 

https://www.rumorscena.com/05/02/2019/vivere-bruciare-amare-il-successo-dello-spettacolo-di-roberto-castello-e-aldes-a-catania

Don Quijote, o dell’essenza della danza

CATANIA – Che il linguaggio della danza contemporanea sia oggi, tra le arti, il vero regno della polisemia e dell’allusività ci vuol poco a capirlo e che esso, nel ritmo e nella connotatività emotiva e politica dei corpi, sia affine alla poesia è altrettanto evidente. Ciò che tocca la danza contemporanea può insomma davvero diventare poesia, ma questo accade efficacemente solo nel contesto di una piena e lucida consapevolezza estetica. Ci sono diverse linee di riflessione che s’intersecano, e che quindi vanno esplorate, nel raccontare il “Don Quijote” realizzato daLoris Petrillo con la (consueta) consulenza drammaturgica di Massimiliano Burini e prodotto da Cie Twain. Una coreografia che s’è vista a Catania il 24 e 25 ottobre scorsi, nello spazio danza di Scenario Pubblico. On stageYoris Petrillo, Nicola Simone Cisternino, Giacomo Severini Bonazelli; musiche realizzate e assemblate dallo stesso Petrillo con la collaborazione di Pino Basile. Uno spettacolo complesso, colto, divertente persino.

La prima linea di riflessione non può che riguardare il soggetto letterario a cui l’autore dichiara, già nel titolo, di volersi ispirare: l’immortale storia del cavaliere Don Chisciotte (col fido scudiero Sancho Panza) di Cervantes, un classico inesauribile della cultura occidentale, una storia archetipica e molto complessa che si dischiude ad accogliere il senso profondo della nascita della società capitalistica e, d’altra parte, la fine di ogni idealismo non utilitaristico. Don Chisciotte è colui che non si arrende e – folle, saggio, sognatore, fantasma o marionetta – trova comunque il modo di combattere le sue buone battaglie. Da notare anche che l’aver scelto di costruire una coreografia entro i limiti esatti di una storia molto conosciuta, non limita la creatività dell’artista ma anzi ne esalta la capacità di espandere dall’interno le possibilità simboliche.petrillo2

La seconda linea di riflessione tocca un livello più profondo dello spettacolo e s’intreccia profondamente alla prima , pur restando assolutamente visibile: sembra che il coreografo voglia provare a portare la sua danza, il suo linguaggio coreografico, il suo stesso spettacolo nelle vaste terre del comico. Terre che Petrillo scopre facilmente nel testo di Cervantes in tutta la loro fertilissima consistenza e che restituisce nella loro straordinaria bellezza, attivando (ma talvolta non controllandoli del tutto) i meccanismi basici su cui si fonda il comico: ovvero il ritmo avvolgente dello spettacolo e il ribaltamento della realtà normata (l’emersione del basso-corporale, la caduta anzi il capitombolo, lo schiaffone, il grottesco, la disarmonia, l’ambiguità, l’ironia, la sberleffo esplicitamente rivolto al prepotente).

Ma come è noto, e come del resto lo stesso Petrillo sembra aver chiaro, la comicità è parente stretta della rivolta politica e dell’utopia ed ecco che all’interno di questa stessa linea di sviluppo s’innesta un serrato confronto verbale con la realtà contemporanea, con la pervasività delle dinamiche economiche (e/o finanziarie) che azzerano ogni tensione ideale dell’individuo. La terza linea di riflessione è più che altro la stessa carta d’identità di Petrillo, la sua storia e la sua tensione a vivere la danza non tanto come una disciplina o come uno specifico linguaggio artistico, quanto come scelta radicale: da questo punto di vista questo lavoro può in qualche modo esser definito una meta-coreografia, laddove molti segni di esso (sin dall’attacco iniziale con i tre danzatori che giocano col tutù in testa) stanno proprio ad indicare che in fondo il don Chisciotte che qui viene ad esser immaginato è in qualche modo il danzatore, colui che sceglie di concedere al corpo la facoltà di esprimersi e comunicare in piena autenticità.

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Paolo Randazzo

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Agamennone, se il mito danza.

CATANIA – Forse è destino che ogni forma ed esperienza d’arte che si sviluppa in Occidente prima o poi debba confrontarsi col mito. È un destino che accomuna ogni forma d’arte ogni esperienza, ogni percorso, mentre sono pochissimi quelli che a questo destino si sottraggono. Non è certo questo il luogo per riflettere sui motivi (storici, culturali, antropologici) per cui ciò accade, ma è chiaro che, se ci si trova ad assistere al debutto di una coreografia intitolata “Agamennone (criminal case) di una compagnia siciliana, che negli anni ha fatto del rapporto col mistero della contemporaneità la sua primaria ragion d’essere, qualche domanda occorre porsela. Parliamo della coreografia di Petranura Danza che ha debuttato in prima assoluta a Catania a Scenario Pubblico il 16 ottobre scorso: in scena Salvo Romania (che della coreografia è l’autore, insieme con Laura Odierna), Valeria Ferrante (altra colonna della compagnia) ed ancora Jessica Eirado Enes e Filippo Domini; disegno luci e costumi rispettivamente di Mario Villano e Debora Privitera; le musiche, in gran parte originali, eseguite dal vivo in scena da Carlo Cattano (al sassofono) e da Raffaele Schiavo (voce e percussioni).

agamennone 2Dunque Agamennone: l’antichissimo mito che ci riporta all’Iliade e all’Orestea di Eschilo, il mito che si e ci interroga sul senso della giustizia basata sulla vendetta, che può a sua volta innescare un’infinita catena di vendette e può essere interrotta solo dall’avvento, sacrale e politico, di una giustizia che sa riconoscere le ragioni degli altri, o forse anche – sembra chiedersi Romania – da una considerazione del coacervo emozionale entro il quale nasce anche la violenza. Ecco lo scarto che rende interessante questa lettura: per interpretare e, quindi, per por fine alla violenza non basta capire le ragioni degli altri, comprenderle razionalmente, occorre anche, primariamente, capire le emozioni che ne costituiscono l’humus. E qual è la sede primaria delle emozioni (dolore, delusione, orrore, sete di vendetta, ferocia) e della comunicazione basica di esse se non il corpo? Ecco quindi la possibilità della danza, ecco la possibilità che l’intelligenza del corpo e delle emozioni trovi la sua lingua privilegiata e quasi necessaria nel linguaggio della danza: ecco la possibilità di questo spettacolo.

Uno spettacolo che è ben costruito, solido, equilibrato nei suoi vari segmenti: segue il mito (sostanzialmente negli snodi della versione eschilea: l’arrivo glorioso di Agamennone ad Argo, la trappola ordita da Clitennestra ed Egisto, la vana premonizione di Cassandra, l’assassinio, il trionfo degli assassini), lo attraversa e se ne serve liberamente senza restarne abbagliato e prigioniero. Sono le emozioni a guidare (e a comunicare) la costruzione del gesto e dei movimenti, anche nei momenti in cui è massimo il pathos, mentre il linguaggio coreografico di Romania sembra essersi alleggerito, depurato da ogni ansia, affettazione, venato di sana ironia. Un discorso a parte va fatto questa volta per le musiche, giacché esse davvero danno una marcia in più, in profondità e respiro culturale, a questo lavoro: sono respiri e sono echi lontani, dolore e gioia, voli e tonfi dell’anima, sono bisbigli e sono frastuono di navi, mercati, viaggiatori. Anche in questa dimensione musicale insomma, si scrive Agamennone  si legge uomo.

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Paolo Randazzo

link da Rumorscena.

 

i delicati incastri di “Machine tool”

NOTO – È sempre un privilegio seguire, sin dalle prime battute, la nascita e il graduale concretizzarsi di un’opera o di un progetto artistico. Parliamo in particolare di “Machine Tool_maneggiare con cura”, la coreografia di e con Melissa Gramaglia (siciliana di Noto, studi in Germania e poi in Italia nell’ambito della scuola di Roberto Zappalà) che s’è vista in Sicilia, proprio a Noto, il 25 settembre scorso, nell’ambito del Codex Festival. On stage, accanto all’autrice e danzatrice, a danzare e suonare dal vivo il versatile contrabbassista Antonio Aiello. gramaglia 4Uno spettacolo che la giovane coreografa ha costruito in un paio d’anni, tassello dopo tassello, segmento dopo segmento, con una serie copiosa di studi e riflessioni e che sembra aver trovato un suo definitivo ed apprezzabile equilibrio formale. È il rapporto amoroso il focus su cui si concentra la coreografa, il rapporto amoroso nella sua infinita (e quindi inesauribile) gamma di situazioni, emozioni, improbabili incastri, fratture, tragicomici paradossi che l’arte ha preso a esplorare sin dalle origini dell’uomo e che si disvela, in tutto il suo senso e la sua potenza vitale solo a condizione che di esso si sappia e si possa a parlare con autenticità. Ed è questo in fondo lo scarto che, fatta salva qualche acerbità e qualche eccesso d’ansia, rende apprezzabile il lavoro, questo lavoro, di Melissa Gramaglia: la consapevolezza che tra la finzione della resa scenica, limitata nello spazio e nel tempo, la dinamica della costruzione del segno e del gesto coreografico e l’autenticità di quanto si esprime c’è uno iato, una dialettica aperta che necessitano di cura, di attenzione, di delicatezza, di consapevole ironia. La cura e la consapevole ironia che consentono a qualsiasi arte di non trasformarsi in puro mestiere, che consentono al danzatore di far vibrare di senso il proprio corpo e al musicista di render lingua vivente le note del suo strumento. Ed è cosi che dialogano in scena Gramaglia e Aiello, è così che s’intersecano positivamente movimenti e note, gesti e sguardi, cadute e corse, è così che riescono a incrociarsi, con leggerezza e misura, ironia e profondità, naturalezza e disciplina. Meno utile appare invece, nell’economia complessiva dello spettacolo, l’utilizzo di parole che, nella loro nudità, davvero poco aggiungono al senso complessivo ed anzi ne limitano la poetica connotatività.

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Paolo RANDAZZO

link da Runor(s)cena.

Danzare la Nona di Beethoven

CATANIA – È stato un mese importante, questo maggio, per Roberto Zappalà, un mese importante per la sua Compagnia e per tutto quel mondo di artisti, appassionati, cultori e cittadini che (ormai da ogni parte della Sicilia) riempiono settimanalmente Scenario Pubblico: si festeggiano non solo i venticinque anni di attività della compagnia di danza contemporanea nata nel 1990 a Catania per volontà caparbia di questo artista, ma anche il riconoscimento ministeriale di Scenario Pubblico (teatro di residenza della compagnia) quale “Centro nazionale di produzione per la danza”. Per capire la portata di questo riconoscimento basti notare che esso è stato attribuito in tutta Italia solo ad altre due realtà analoghe (l’“Aterballetto” di Reggio Emilia e i fiorentini “Cantieri della Goldonetta” della compagniaVirgilio Sieni). Qualcosa di cui i siciliani hanno imparato ad essere orgogliosi.CZD_Nona_stampa_phSerenaNicoletti1Un mese importante, dunque, che ha avuto il suo culmine, dal 20 al 27 maggio, sul palcoscenico del TeatroMassimo Bellini, col debutto in prima assoluta del nuovo spettacolo “La Nona. Dal caos, il corpo”, terza tappa del progetto di ricerca e riflessione “Transiti Humanitatis e ispirata alla celeberrima e ultima sinfonia di Beethoven (quella dell’“Inno alla gioia” per intenderci), accostata però nella trascrizione per due pianoforti di Liszt e suonata splendidamente in scena da Luca Ballerini e Stefania Cafaro, mentre a cantare il testo di Schiller associato alla Sinfonia si esibiva il controtenore Riccardo Angelo Strano. Uno spettacolo che ha visto in scena la compagnia per intero e nel suo nuovo assettoLa regia, scene luci e costumi, sono dello stesso coreografo mentre, come sempre, appare importante il contributo drammaturgico di Nello CalabròCZD_Nona_stampa_phSerenaNicoletti3Un lavoro di grande respiro insomma, nel quale il coreografo catanese conferma la sua, ormai consolidata, concezione della danza come percorso di riflessione e di saggezza umana Il percorso si dispiega in due tempi: prima il conflitto e il dolore, il male della violenza (la danza tende a essere uniforme e i costumi dei danzatori, che sono tutti realizzati in varie tonalità di arancione, alludono alla violenza subita dai prigionieri di Guantanamo come dalle vittime dell’Isis), la negazione dell’umanità, della diversità e, in definitiva, il caos (non appare inutile qui notare l’apparente, ma feconda, contraddizione per cui proprio l’uniformità forzata – ideologica, spirituale, culturale – è il caos).  La gioia liberata e liberatoria della danza e dell’espressione di quanto di buono l’uomo può e sa essere (ritorna la diversità dei colori, la danza assume una dimensione più aperta, mentre la musica va aprendosi a sua volta nell’“Inno alla gioia”).

La riflessione si focalizza insomma su quella straordinaria e dolorosa contraddizione per cui proprio le religioni (tutte le religioni come sembra indicare la scenografia realizzata con l’immagine di una specie di vecchia soffitta o di un polveroso magazzino in cui giacciono, disordinatamente, i cascami simbolici di tutte le religioni), contraendosi in quei fanatismi e integralismi, di cui oggi abbiamo terribile e quotidiana notizia ed esperienza, e impedendo agli uomini di vivere un rapporto pacifico col loro essere anzitutto corpo, natura e diversità, si fanno potere e negano di fatto, ma paradossalmente certo rispetto alla loro originaria scintilla spirituale, ogni libertà, ogni autentica spiritualità, ogni gioia di vivere e amare e si trasformano in cause di odio, guerra, distruzione.

Sul piano formale forse si nota un po’ la sofferenza del coreografo per la grandezza della scena del Bellini in cui appare davvero arduo focalizzare e rendere percepibile l’intensità semantica di ogni singolo gesto, mentre non appare congruo rispetto alla potente poesia dell’intera costruzione l’uso delle maschere per connotare (anche se certo ironicamente) il versante politico di ciò che viene indicato come caos.

Crediti fotografici: Serena Nicoletti

Paolo Randazzo

Link da RUMOR(S)CENA

Se l’amore è in frammenti

CATANIA – Un pezzo di danza pura, pulita, sostanzialmente creata solo per quella necessità di creare che è l’invidiabile dono degli artisti: riferiamo questa volta di “Frammenti di un discorso amoroso” della compagnia siciliana Petranura danza” (coreografia e regia di Laura Odierna e Salvatore Romania); on stage lo stesso Romania insieme con la giovane Valeria Ferrante, mentre le musiche sono suonate dal vivo, con quella straordinaria e antica tipologia di viola che va sotto il nome di “ribeca”,  da Michele Conti  e, nell’ultimo segmento dello spettacolo, un canto eseguito ancora dal vivo da Franco Cantarrì. Lo spettacolo in questione si è visto a Catania, nello spazio di Scenario Pubblico, domenica 22 marzo. Danza pura dunque, anche se non può esser sottaciuto il motivo ispiratore di questa coreografia: ovvero il richiamo, esplicito persino nel titolo, al celeberrimo e sempre affascinante saggio omonimo di Roland Barthes. Un saggio che dichiaratamente non esplora le radici psicologiche dell’amore, ma ne rappresenta e interpreta la fenomenologia proprio per mezzo di parole (le parole dell’amante) e di figure che s’inseguono e parlano proprio come nella danza.

Il tema è l’amore, l’amore affrontato in quella dialettica “io/noi” in cui la relazione, la coppia, la somma di due individualità (due io), risulta essere sempre superiore e diversa a due: ne risulta che, se ognuno è attratto dalla dimensione di coppia ne è anche, allo stesso momento, intimorito e nel profondo estraniato. Questi motivi, e molti altri che da essi dipendono direttamente e indirettamente ( come la beatitudine e l’inquietudine, il desiderio della totale simbiosi e la paura dell’ annullamento nell’altro, la strutturale precarietà e il bisogno di sicurezza, la forza e la fragilità, l’estasi e la noia), vengono dunque tradotti in danza, dispiegati in un percorso ben delineato (dalla fase iniziale in cui l’amore è malia ed entusiasmo al suo svilimento, dal suo trasformarsi in passione triste e risentimento al desiderio del suo ritorno) e resi con un linguaggio coreografico che li esplora, li trasforma continuamente in figure e in un continuo gioco di forze di attrazione e repulsione. Un linguaggio coreografico che diviene, col passare del tempo e di spettacolo in spettacolo, sempre più netto, denso, interessante ed autonomo.

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Paolo Randazzo

Link da Rumor(s)cena.