Cosa ci dice sorella pandemia

Roberto Rusconi “Dalla peste mi guardi Iddio. Le epidemie da Mosè a Papa Francesco”, Morcelliana, 2020, pp. 208, euro 16,50.

Quale impronta lascerà la pandemia da Covid 19 alla chiesa cattolica e all’universo cristiano? Probabilmente l’abbandono di ogni residuo di cultura magica e di tolleranza acritica verso la religiosità popolare. Nel chiedere vaccini per tutti e soprattutto per i poveri, papa Francesco, a nome della chiesa intera, professa di credere nell’efficacia della medicina e di non considerare la pandemia come segno di un castigo di Dio per eventuali peccati e degenerazioni dell’umanità (nelle sue varie declinazioni della società secolarizzata, della Chiesa corrotta, dell’Occidente etc.). Non si assegnano spazio e senso sostanziali a processioni, formule magiche, riti riparatori. Inutile rivolgersi a santi specializzati nella lotta a malattie ed epidemie come san Rocco, santo Stefano, san Sebastiano o, peggio, cercare capri espiatori. Con Bergoglio la chiesa sceglie di aderire ad alta voce (è qui la novità) alla fragilità dell’uomo e affidarsi definitivamente alla medicina. Questa adesione era stata preannunciata dalla manifestata, estrema debolezza fisica di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ma questa volta si va oltre la testimonianza: ci si schiera, si sconfessa ogni bigottismo, si professa adesione sincera e soprattutto pubblica a precetti della medicina considerati buoni per l’uomo. È quanto si ricava dal bel saggio di Roberto RusconiDalla peste mi guardi Iddio. Le epidemie da Mosè a papa Francesco” (Morcelliana, pp.208, euro 16.50). Un libro da leggere perché non solo è interessante, ben documentato, scritto con stile agile senza scadere mai nell’approssimazione, ma soprattutto perché l’autore registra con acume e intelligenza di storico il senso profondo di una battaglia che da millenni si svolge nella chiesa: la battaglia dell’adesione radicale e liberatoria al mistero di Gesù veramente uomo e risorto, contro ogni alienante tentazione magica, sia quando questa si manifesta nella limpida buona fede della devozione popolare, sia quando si manifesta nella torbida malafede del potere clericale (da un lato le processioni popolari, dall’altro il potere del “grande inquisitore” di dostoevskijana memoria).

Paolo RANDAZZO

Risuscitato? Anche no.

Marc Augé, “Risuscitato”, Raffaello Cortina Editore, 2020, pp. 122, euro 10,00.

Un libro per pensare. Un libro che è al contempo un’invenzione letteraria, un piccolo e denso saggio filosofico, un referto, intelligente e di sofisticata leggerezza, di antropologia militante. Ci si riferisce a “Risuscitato” l’operetta del grande antropologo francese Marc Augé, pubblicata in Italia da “Raffaello Cortina Editore” (pp. 122, euro 10, traduzione di Riccardo Mazzeo). La vicenda sembra riprendere la storia di James Bedford, psicologo americano ibernato nel 1967. Ma ecco la finzione: in Francia un intellettuale di vaglia, il brillante docente universitario Bernard Robert, morto nel 1978 a trent’otto anni di cancro al pancreas, viene immediatamente criogenizzato, ovvero ibernato a 196° sottozero e dopo 50 anni viene rianimato. Risuscitato. I governi transalpini hanno nei decenni puntato molto, e molto segretamente, su questo filone di ricerca bio-medica e adesso, nel momento in cui la medicina è in grado di curare con successo il cancro al pancreas, sono orgogliosi di raccogliere e annunciare al mondo il primo frutto di questa straordinaria impresa scientifica. Uno psicologo, figlio di un caro amico di Robert, è incaricato di seguirlo nel graduale re-inserimento in società: è la voce narrante, una voce partecipe ma senza mai smarrire ironia e leggerezza. La conclusione è amara, più rapida e improvvisa di quanto ci si aspettasse, meno connotata di gloria di quanto la vicenda si fosse presentata alla conoscenza e all’ammirata consapevolezza della scienza, della politica e, soprattutto, del grande pubblico. Le questioni sapienziali, religiose e filosofiche implicate sono evidenti: la centralità della morte nel dare senso alla vita, la liceità degli studi biomedici e delle loro applicazioni estreme, l’identità tra tempo e  vita, la possibilità di allontanare, se non proprio eliminare, il momento della morte, la possibilità di risolvere il rebus del rapporto tra tempo e vita quando si potrà attraversare lo spazio e mandare a vivere uomini e donne in carne ossa su altri pianeti.

Paolo RANDAZZO

La moglie del rabbino

Chaim Grade “La moglie del rabbino” Giuntina 2019, pp. 213, euro 24,00.

 

Sono tre i motivi d’interesse che consigliano la lettura de “La moglie del Rabbino”, il romanzo del grande Chaim Grade che Giuntina ha fatto tradurre da Anna Linda Callow e ha pubblicato di recente. Anzitutto la grandezza dell’elemento narrativo: un elemento formale in cui si può riscontrare non solo l’importanza di questo scrittore (1910 – 1982, nato in Lituania a Vilnius, vissuto nel cuore della esperienza del genocidio nazista degli ebrei e scampato New York), e più generalmente della tradizione europea della letteratura yddish. In secondo luogo la densità del soggetto di questo romanzo, la segreta frustrazione di Perele, figlia di un importante rabbino e moglie di Uri Zvi Ha Kohen Kenisberg, modesto rabbino della minuscola città di Graypeve. Perele con implacabile determinazione manipola la semplicità del marito per vendicarsi del talmudista e rabbino di Horodne, Moshe Mordechai (detto il papa degli ebrei), che da ragazza le era stato fidanzato e l’aveva lasciata poco prima del matrimonio. Una storia che, ben piantata nella realtà che vuol rappresentare, non indugia al simbolismo e colpisce il lettore solo per la sua forza. In terzo luogo, infine, una riflessione sulla ricchezza della cultura ebraica europea e nella fattispecie della cultura yddish. In particolare la vicenda di Perele è sbalzata sullo sfondo della tradizione dell’ebraismo ortodosso lituano (diverso dalla mistica chassidica dell’ebraismo polacco) e della polemica che trova su posizioni opposte i seguaci dell’Agudà, tradizionalisti e nemici del sionismo, ritendendo che non vi sia altra via di redenzione per il popolo eletto che la fiduciosa attesa del Messia, e dall’altra parte gli ortodossi del Mizhrai che appoggiano il sionismo. Una ricchezza che continua a essere poco conosciuta, riservando all’ebraismo il ruolo ambivalente di cultura che fiorisce in Europa da millenni e però resta separata e “altra”, quasi a ricordarci che l’altro è esattamente quella parte di noi che ci rifiutiamo di conoscere.

 

Paolo RANDAZZO

Pinuccio – Aldo Rapè

PALERMO. In ogni tradizione letteraria o teatrale o anche, genericamente, artistica ci sono dei motivi che ritornano, dei luoghi dello spirito e della riflessione/mimesi/invenzione letteraria o teatrale che negli anni hanno assunto un valore paradigmatico, sono diventati topoi che occorre conoscere ma che poi è difficilissimo usare quando si costruiscono nuove narrazioni che in qualche modo devono contenerli. È questo certo il caso delle grandi miniere di zolfo siciliane e della loro presenza, non solo nella memoria di tante famiglie siciliane e nella cultura popolare di buona parte dell’isola, ma anche in numerose e celeberrime pagine della letteratura siciliana (Verga, Pirandello, Sciascia, Rosso di San Secondo): luoghi di sfruttamento bestiale, di schiavitù, luoghi di lavoro e sacrificio, di dolore, di lutto e di affetti stroncati, luoghi di costruzione di ricchezza e di lotta politica, di economia proto-capitalistica, luoghi capaci di generare racconti e fantasmi. È questa la prima difficoltà che affrontano opere come “Pinuccio”, lo spettacolo che Aldo Rapè (attore, regista, teatrante a tutto tondo e da qualche tempo anche direttore del Teatro pubblico di Caltanissetta), ha presentato sabato 23 febbraio scorso sulla scena dello “Spazio Franco” a Palermo. Si tratta della storia di Peppino, un bambino rinominato Pinuccio appena prima di cominciare a lavorare nella miniera di zolfo di Gessolungo a Caltanissetta, a dieci anni: rimasto orfano di padre (zolfataro morto nel buio di quella stessa miniera), diventa “carusu di miniera” e scende a lavorare nudo nelle viscere della terra con gli altri due suoi fratellini (rispettivamente di otto e sei anni). Inutile dire l’orrore che può suscitare oggi il pensiero di un così violenta pratica di sfruttamento che si è abbattuta su bambini inermi nelle nostre terre, in Europa, nel cuore del Mediterraneo, sino a pochi decenni fa. Ciò che conta politicamente è che pratiche del genere siano state abolite e siamo giustamente rifiutate ed esecrate moralmente. Dal punto di vista artistico ne scaturisce il rischio, presente e pressante, di cadere nel già visto/già sentito e quindi, sostanzialmente, di lavorare su qualcosa che non ha vera necessità estetica. Un rischio paralizzante e non facile da evitare del tutto. Aldò Rapè sa trovare però il modo per venirne fuori (quasi) indenne: è il modo è lo stile dell’attore, la cura del linguaggio teatrale e del ritmo, il sorvegliato e lentissimo dispiegarsi della parola d’attore che è suono, corpo, ritmo, consapevolezza storica, incantamento. Interessante, densa di echi e ben calibrata anche la presenza degli apporti sonori prodotti da vivo da Sergio Zafarana. Uno spettacolo insomma lieve e ben fatto, che suscita emozioni e domande che afferiscono, con autenticità, alla sostanza storico-politica del nostro presente e della nostra umanità globalizzata. Certo ci vuole intelligenza e un bel mestiere per arrivare a questo punto ed è la bella sorpresa che in questo lavoro Rapè riserva al suo pubblico.

Paolo RANDAZZO

PINUCCIO, di e con Aldo Rapè, musiche originali dal vivo Sergio Zafarana, Zafarà. Produzione Prima Quinta Teatro. Crediti fotografici di  Lillo Romano.

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Stagione INDA 2018. Tra Eracle e Edipo, la tragedia greca parla al presente.

SIRACUSA. La messinscena contemporanea di un testo tratto dall’antica drammaturgia attica non può essere solo un’operazione artistica, ma implica sempre una riflessione più ampia di natura antropologica e filosofica. Una riflessione che ha come oggetto “un’alterità”, lontana eppure storicamente e culturalmente determinata (quella classica), che diventa segno e simbolo di quell’alterità assoluta che, oggi più che mai, è il cuore di ogni più avvertito pensiero dell’uomo su sé stesso. Una riflessione che assume, quasi per necessità, la forma del dialogo tra un testo antico (spesso bellissimo ma che può essere compreso appieno solo a partire dalla conoscenza di un contesto che in gran parte ci sfugge) e una poetica contemporanea che non può che attrarlo a sé tradendolo, distorcendolo, maltrattandolo. E quanto più importante, profondo autentico è questo dialogo, tanto più profondo, fecondo e necessario diventa lo spettacolo che da esso scaturisce. Può sembrare pretenzioso o strano premettere tali considerazioni ad una semplice recensione giornalistica, eppure si tratta di considerazioni necessarie se davvero si vuol capire il senso di spettacoli, grandi e importanti, come quelli che vanno in scena annualmente nel contesto delle Rappresentazioni classiche del Teatro Greco di Siracusa. Raccontiamo questa volta degli spettacoli della Cinquantaquattresima stagione Inda diretta da Roberto Andò (dal 10 maggio, a giorni alterni, fino al 24 giugno, lunedì riposo), raccontiamo dell’Eracle di Euripide diretto da Emma Dante e dell’Edipo a Colono di Sofocle diretto dal regista greco Yannis Kokkos.

Lo spettacolo di Emma Dante è tutto giocato sul ritmo, sulla coralità, su forme, stilemi e colori che caratterizzano in modo costante e da decenni il teatro di questa artista. Il testo parte dalla traduzione elaborata da Giorgio Ieranò, le scene (molto belle e luminose) sono di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino, le musiche di scena di Serena Ganci, le coreografie di Manuela Lo Sicco, il disegno luci di Cristian Zucaro: al di là del traduttore, si tratta ovviamente di una equipe, affiatatissima e ben rodata da anni di lavoro comune, che sa rendere perfettamente e in ogni minimo elemento la poetica della Dante. In scena ci sono Serena Barone (Anfitrione), Naike Anna Silipo (Megara), Patricia Zanco (Lico), Maria Giulia Colace (Eracle), Francesca Laviosa (Iris), Arianna Pozzoli (Lyssa), Katia Mirabella (Messaggero),  Carlotta Viscovo (Teseo), Serena Lippi, Arianna Pozzoli ,  Isabella Sciortino (figli di Eracle), Samuel Salamone (Corifeo), Sabrina Vicari, Mariella Celia, Silvia Giuffrè  (danzatrici), Serena Ganci e Marta Cannuscio (musiciste), il coro maschile dei vecchi Tebani realizzato (ancora un ribaltamento ma questa volta al femminile e con toni comico-grotteschi) dai giovani dell’Accademia d’arte del Dramma Antico di Siracusa. Il segno primo e principale da cui sembra dispiegarsi la lettura che si dà del testo euripideo è la bellissima scenografia firmata da Maringola: un cimitero di marmo bianco con decine e decine di ritratti e di foto e con sepolcri che il tempo ha svuotato e la pioggia ha riempito d’acqua. In questa scenografia, in cui il biancore del marmo non è mai (o non è più) astratto neoclassicismo ed anzi rimanda immediatamente ad un dolore familiare e ancora caldo d’affetti, un dolore privato o comunque di una comunità definita (e siamo proprio nel pieno della poetica della Dante), ecco stagliarsi la distruttiva prepotenza del potere e subito dopo la violenza assurda della follia e della fragilità umana. Tre grandi momenti: Lico con violenza prova a usurpare il trono di Eracle che si trova fuori città (impegnato nella fatica contro Cerbero); Eracle ritorna e, dopo aver ristabilito il suo legittimo potere in città, colpito all’improvviso, tramite Iris e Lyssa, dalla follia di Era, stermina la sua famiglia uccidendo moglie e figli; Teseo ritorna e aiuta Eracle a ritornare in sé, non suicidandosi come la morale eroica probabilmente avrebbe richiesto (si pensi ad Aiace), ma accettando di restare in vita e di portare per sempre il fardello del dolore che certo è poco eroico, ma è totalmente, profondamente umano. La regista ha saputo leggere il testo di Euripide con occhi limpidi e attenti, è riuscita a penetrare con intelligenza questo dispositivo di senso, a convertirlo con energia e delicatezza in un potente e saporito spettacolo mediterraneo che riesce a trasmettere coralmente la potenza del mistero tragico. Coralmente: uscendo da teatro si ricorda lo spettacolo non il singolo attore interprete (sebbene vi siano state delle solidissime prove d’attrice nelle interpretazioni di Naike Anna Silipo e di Katia Mirabella). Va intesa in questa direzione di coralità anche la scelta di ribaltare al femminile l’intero cast della tragedia: nessuna rivendicazione femminista e/o politicamente corretta, ma probabilmente il desiderio di riscrivere e il dramma euripideo senza alcun sacro timore e, allo stesso tempo, di ri-mescolare nello spazio della sua lingua teatrale i tanti elementi della complessa teatralità euripidea: la terribile paradossalità del fato, la forza oscura, negativa e persino violenta dell’azione degli dei nel mondo, la comicità involontaria e goffa, se non proprio volgare, del (di ogni) potere privo di nobiltà, l’incapacità della morale (eroica) tradizionale tradizionale di parlare al presente di costruire il futuro, la accettazione della umanità come unica misura della realtà. Cosa non convince di questo spettacolo? La quantità eccessiva di segni che, se inseguiti nella loro puntale e persino interessante significatività o allusività (la divaricazione nella tipologia delle musiche scelte, l’allusione ripetuta al mondo dell’Opera dei pupi come a quello dei cartoni animati giapponesi, dei video giochi, dei super eroi, le danze che sono insieme vagamente dervisce e vagamente brasiliane, l’uso ludico dell’acqua quale simbolo di vita e di vitalità tradita), sviano, distraggono e talvolta spengono l’incandescenza del mistero tragico proposto da Euripide, in ogni caso non aggiungono alcunché di significativo all’economia complessiva della messinscena.

Assai diversa, eppure anch’essa affascinante, è la messinscena dell’Edipo a Colono di Sofocle diretta da Kokkos che di questo allestimento ha curato anche le scene: si tratta di uno spettacolo giocato sulla bravura degli attori, sulla capacità degli interpreti di inerpicarsi tra le vette poetiche del grande, enigmatico e paradigmatico insieme, testo sofocleo. Le musiche sono di Alexandros Markeas, i costumi di Paola Mariani, il disegno luci di Giuseppe Di Iorio. In scena ci sono Massimo De Francovich (Edipo), Robeta Caronia (Antigone), Sergio Mancinelli (Straniero), Davide Sbrogiò (Corifeo), Eleonora De Luca (Ismene), Sebastiano Lo Monaco (Teseo), Stefano Santospago (Creonte), Fabrizio Falco (Politice), Danilo Nigrelli (Messaggero), Massimo Cimaglia, Francesco Di Lorenzo, Lorenzo Falletti, Tatu La Vecchia, Eugenio Maria Santovito, Carlo Vitiello (coro recitante dei vecchi ateniesi) e ancora i ragazzi e le ragazze dell’Accademia d’arte del Dramma Antico per il resto del coro e delle presenze sceniche. L’impianto scenografico e i costumi riportano a un confine, a una frontiera europea di un vago secondo dopoguerra, tra durezze e resistenze, tentazioni autoritarie e/o derive poliziesche, doverose difese di valori politici nobili e, su tutto, una grande statua d’uomo che, schiena rivolta al pubblico, sovrasta la scena intera e ne rappresenta (ne vuol rappresentare) in qualche modo la sintesi. Viene in mente l’aforisma di Sant’Agostino che alla domanda “Quid est veritas?” rispondeva con l’anagramma della stessa domanda “Est vir qui adest”: l’uomo che c’è, quello che sovrasta, appunto. Varrà per Cristo certo, vale già per Edipo. Che dire? Gli attori sono tutti all’altezza del grande testo e la messinscena, tagliata elegantemente nel silenzio, appare semplice, rigorosa, intelligente, aderente all’altezza della poesia sofoclea che ondeggia continuamente tra l’emozione e l’interrogazione filosofica, tra la luce del coraggio (o della miseria umana) e l’oscurità imperscrutabile della realtà e del destino. Lo spettacolo è tenuto per mano dagli attori: dal protagonista, De Francovich che, pur nella piena padronanza e intelligenza del personaggio, sembra restare sempre estraneo a qualsiasi posa da mattatore (e questo è un bene che va sottolineato) a Sbrogiò che è un corifeo energico e sensibilissimo, da Sebastiano Lo Monaco (che, pur nella sua consueta dimensione di generosità attorale, dà prova nel ruolo di Teseo di sapersi contenere e autodisciplinare) a Santospago (che è un Creonte scafato e però capace di far balenare una straordinaria complessità di  sotto-testo). Uno spettacolo rigoroso, pulito, senza però quel colpo d’ala – occorre dirlo – che avrebbe consentito di trovare, insieme con l’allusività politica che è giusta, pervasiva e ben giustificata, un oltre necessario di sapienza e di spiritualità. Un oltre necessario che, ad esempio, sviluppasse da un lato più concretamente il motivo del confine evocato dalla scenografia e dall’altro focalizzasse meglio la profondità magico-rituale presente (soprattutto, ma non solo) nell’episodio conclusivo del testo ma poco e mal visibile nello spettacolo.

 

Paolo RANDAZZO

 

 

Crediti fotografici per l’Eracle: Franca Centaro e Tommaso Le pera. Crediti fotografici per l’Edipo a Colono: Gianni Luigi Carnera e Franca Centaro.