La verità delle religioni è solo il dialogo

Roberto Celada Ballanti “Filosdofia del dialogo interreligioso”, Morcelliana, 2020, pp. 178, euro 14,00.

Paolo RANDAZZO

Si fa presto a dire “dialogo”. Si fa presto, e spesso si fa male: il dialogo richiede capacità di silenzio e ascolto, empatia e intelligenza, autodisciplina, cultura. Il dialogo, se praticato con serietà, diventa luogo di pace, progetto politico pregno di speranza e questo può accadere ad ogni livello della condizione umana, può attraversare meridiani e paralleli. Certo resta forte l’odio, continuano le guerre, permane la politica come forza e sopraffazione. Oggi però non si può volar basso, malgrado il male che ogni giorno attraversa le vite degli uomini e rispetto al quale siamo mitridatizzati dai media, davvero non si può. Non possiamo non pensare con stupore e gratitudine a quanto è appena accaduto in Iraq, tra le macerie spirituali e materiali di Najaf, Mosul, Erbil. Non possiamo non riflettere su quanto coraggio, volontà d’amore, ascolto, empatia, carità, cultura ha messo in campo Papa Francesco recandosi in Iraq a dialogare con i musulmani e i cristiani di quella terra. A pregare con loro, a chiedere che le religioni considerino abominio e negazione di Dio ogni violenza. Amore e dialogo: nient’altro, nessuna scorciatoia. “Rinunciare al nemico” hanno titolato i giornali, sintetizzando il messaggio di Francesco e non c’è altro d’aggiungere. Ma per non fermarci alla superfice mediatica, per capire la straordinaria grandezza del gesto del papa, occorre guardare al suo significato profetico, ripensare a quanto abbia inciso la globalizzazione sulla necessità di dialogo tra religioni. Occorre considerare il lavorio spirituale e filosofico che sta rivitalizzando il dialogo interreligioso. È di grande aiuto, in questo senso, il piccolo saggio di Roberto Celada BallantiFilosofia del dialogo interreligioso” (Morcelliana, euro 14,00). Un saggio denso di pensieri e sapienza, da leggere con apertura di mente e autentica disponibilità di cuore. Una ricerca del senso possibile nel territorio del dialogo tra religioni. Si parte con una riflessione sul mito di Iride e da quanto Raimon Pannikar ha scritto su questo mito illuminante: «Le diverse tradizioni religiose dell’umanità sono come il numero quasi infinito di colori che appaiono quando la luce divina, o semplicemente la luce bianca della realtà, colpisce il prisma dell’esperienza umana: si rifrange in innumerevoli tradizioni, dottrine e religioni. Attraverso ogni specifico colore, in questo caso una religione, si può raggiungere la sorgente della luce bianca». Questo il punto di partenza, ma il campo della ricerca è il confine, la soglia tra le tradizioni religiose. Non è una ricerca semplice, anche se un atteggiamento superficialmente relativistico potrebbe liquidare la questione in due parole. Si tratta di concepire un assoluto religioso che si manifesti pacificamente in forma plurale. Dapprima sono attraversate tre esperienze di dialogo filosofico: il “De pace fidei” di Niccolò Cusano del 1453 con l’idea di religio una, separata dalle religioni positive ma, al contempo, presupposta in esse; il “Colloquium Heptaplomeres” di Jean Bodin del 1588, coraggioso nel suo polifonico pluri-prospettivismo religioso; il dramma “Nathan il saggio” di Lessing del 1779. Un dramma che, al suo III atto, approfondisce la già vertiginosa “Parabola dei tre anelli”: la verità religiosa, nel suo nucleo più antico e inattingibile è custodita nella varietà religiosa. Nella seconda parte del saggio l’autore si confronta con Leibniz ma si sofferma soprattutto sulle pagine di pensatori e scrittori contemporanei: Italo Calvino, Deleuze, Simone Weil e ancora Pannikar. «La via all’universale – spiega – passa per quell’inversione che implica (…) la rinuncia da parte di religioni e Chiese alla logica identitaria fondata sul potere, sull’amministrazione della salvezza, in vista di un’identità più segreta che unisce religioni culture e civiltà ed è già operante nel profondo».

Vivere con i classici

Alajmo, Cataluccio, Galateria, Giménez- Bartlett, Spencer, Stassi “Vivere con i classici”, Sellerio editore Palermo, 2020, pp. 158, euro 12,00.

Esiste nella pubblicistica italiana un vasto numero di saggi che affrontano il tema, complesso e affascinante, della presenza della cultura classica nella trama della contemporaneità. Un tema che nel nostro paese registra una presenza e un grado di sensibilità maggiori che in qualsiasi altro paese al mondo, certo per legittimi ed evidentissimi motivi storici sui quali non occorre soffermarsi. Un tema che negli ultimi anni è stato investigato con profondità teorica e filosofica da studiosi e pensatori quali Agamben, Cacciari, Curi, Canfora, Settis, Bettini, Fusillo o con intenzioni divulgative da altri di diversa levatura. In questo spazio di riflessione si pone “Vivere con i classici” la raccolta di scritti di autori vari concepita nel contesto del festival “Letterature” di Roma nel 2019 e pubblicata quest’anno per i tipi di Sellerio con una breve introduzione di Maria Ida Gaeta e un contributo, alla sua altezza, di Luciano Canfora. Gli scritti sono di Roberto Alajmo, Francesco Cataluccio, Daria Galateria, Alicia Giménez Bartlett, Scott Spencer e Fabio Stassi. Si tratta di scritti di natura diversa: dal racconto autobiografico (Gimenez Bartlett, Galateria) alla riflessione culturale (Cataluccio, Spencer), dall’apologo (Alajmo) al racconto immaginifico e distopico (Stassi). C’è una necessità culturale in pubblicazioni di questo tipo? Sì. L’ombra e la voce della cultura classica sono presenti nella polarità identitaria della nostra sostanza culturale, ma la ricerca filosofica e l’antropologia ci hanno insegnato che questa voce e quest’ombra sono presenti e operativi, forse anche di più, nella polarità culturale dell’alterità. Non sempre ne abbiamo consapevolezza, ma è così e anzi nel campo dell’alterità la riflessione sulla permanenza dei classici sta rivelandosi assai feconda e ottenendo i risultati più interessanti. Risultati di cui si avverte eco in questo volumetto, nella misura in cui gli autori hanno saputo rinvenire tracce del classico avventurandosi – certo con risultati diseguali e non sempre convincenti – in direzioni e territori inconsueti per questo tipo di riflessione.

Paolo RANDAZZO

Amore, vedi alla voce: intelletto.

Giorgio Agamben e Jean Baptiste Brenet, “Intelletto d’amore” Quodlibet, 2020, pp. 76, euro 12,00.

Ci sono libri che intrigano non solo per ciò che contengono ma soprattutto perché, una volta letti, spingono irresistibilmente il lettore a interrogarsi sul senso del loro esser stati concepiti e pubblicati. È sicuramente questa la tipologia di “Intelletto d’amore”, breve ma assai denso saggio di Giorgio Agamben e Jean-Babtiste Brenet (prefazione di Alain De Libera) che l’editore Quodlibet ha pubblicato di recente. Si tratta di due testi (“Intelletto d’amore” di Agamben e “L’immagine abolita, desiderata” di Brenet) che, nella loro profonda dialogicità, testimoniano del colloquio intercorso tra i due pensatori sul tema della conoscenza nella filosofia antica e medievale e verificatosi pubblicamente al College de France nel maggio del 2015. Le due riflessioni si dispiegano lungo le vie tortuose e affascinanti dell’averroismo di Guido Cavalcanti e della possibilità della conoscenza (ovvero, usando il termine dell’averroismo, della “congiunzione” dell’intelletto possibile dell’uomo con l’intelletto unico ed eterno) attraverso l’azione dell’amore che, nell’intelletto possibile ha «il suo luogo proprio». Di quell’amore, come spiega Agamben, del quale immediatamente si profila in carattere desiderante e fantasmatico: «tutti i nomi di donna e i senhals che popolano la poesia d’amore trobadorica e stilnovista nominano il fantasma in quanto, nell’esasperata cogitatio amorosa, opera la congiunzione con l’intelletto possibile». Ma se in Dante (anche) l’esperienza amorosa più lacerante sembra trovare composizione in una più vasta preoccupazione politica che riguarda l’intero genere umano, in Cavalcanti la dimensione soggettiva resta in primo piano e travalica in una specie di morte del soggetto che «dopo la congiunzione con l’intelletto sopravvive come un automa o come la statua di se stesso». Brenet prende l’abbrivio da quest’ultimo snodo concettuale, ovvero dalla dissoluzione del fantasma in quanto oggetto unico d’amore e di conoscenza, e spiega: «Condotto al colmo del suo essere, il sapere fantasmatico conosce un vero e proprio annullamento, come in un diluvio mentale o in un’apocalisse». Il tutto mettendo a fuoco la tensione vitale e il dialogo carsico ma senza soluzione di continuità tra passato e contemporaneità. Una tensione vivissima che si dipana dal pensiero di Aristotele e giunge, attraverso Alessandro d’Afrodisia (II, III sec.) e poi i filosofi arabi medievali – Avicenna, e Avorroè –, Tommaso d’Acquino, la poesia di Cavalcanti e Dante e la riflessione di Meister Heckart, fino a Freud (la “Nota sul Notes magico”, come metafora della processo cognitivo), Hannah Arendt, Ernst Kantorowicz. Il tema è dunque la consapevolezza viva e vitale delle dinamiche della conoscenza del reale, della sua possibilità o negazione: una consapevolezza che certo deve essere attraversata soggettivamente dalla dinamica del desiderio, ma poi deve giungere ad una dimensione collettiva e politica che è l’unico vero vaccino capace di preservare l’umanità dall’autodistruzione.

 

 

La moglie del rabbino

Chaim Grade “La moglie del rabbino” Giuntina 2019, pp. 213, euro 24,00.

 

Sono tre i motivi d’interesse che consigliano la lettura de “La moglie del Rabbino”, il romanzo del grande Chaim Grade che Giuntina ha fatto tradurre da Anna Linda Callow e ha pubblicato di recente. Anzitutto la grandezza dell’elemento narrativo: un elemento formale in cui si può riscontrare non solo l’importanza di questo scrittore (1910 – 1982, nato in Lituania a Vilnius, vissuto nel cuore della esperienza del genocidio nazista degli ebrei e scampato New York), e più generalmente della tradizione europea della letteratura yddish. In secondo luogo la densità del soggetto di questo romanzo, la segreta frustrazione di Perele, figlia di un importante rabbino e moglie di Uri Zvi Ha Kohen Kenisberg, modesto rabbino della minuscola città di Graypeve. Perele con implacabile determinazione manipola la semplicità del marito per vendicarsi del talmudista e rabbino di Horodne, Moshe Mordechai (detto il papa degli ebrei), che da ragazza le era stato fidanzato e l’aveva lasciata poco prima del matrimonio. Una storia che, ben piantata nella realtà che vuol rappresentare, non indugia al simbolismo e colpisce il lettore solo per la sua forza. In terzo luogo, infine, una riflessione sulla ricchezza della cultura ebraica europea e nella fattispecie della cultura yddish. In particolare la vicenda di Perele è sbalzata sullo sfondo della tradizione dell’ebraismo ortodosso lituano (diverso dalla mistica chassidica dell’ebraismo polacco) e della polemica che trova su posizioni opposte i seguaci dell’Agudà, tradizionalisti e nemici del sionismo, ritendendo che non vi sia altra via di redenzione per il popolo eletto che la fiduciosa attesa del Messia, e dall’altra parte gli ortodossi del Mizhrai che appoggiano il sionismo. Una ricchezza che continua a essere poco conosciuta, riservando all’ebraismo il ruolo ambivalente di cultura che fiorisce in Europa da millenni e però resta separata e “altra”, quasi a ricordarci che l’altro è esattamente quella parte di noi che ci rifiutiamo di conoscere.

 

Paolo RANDAZZO

Bar Stella

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Ci sono nel teatro di Tino Caspanello (drammaturgo, regista, attore) dei motivi che si ripetono di spettacolo in spettacolo e che, in un mosaico ormai abbastanza definito, sostanziano da anni il percorso creativo di quest’artista: la contemporaneità, come consapevolezza dell’indefinibile complessità del nostro essere nel tempo; la quotidianità, come dimensione della “straordinarietà” di ciò che ci sta “ordinariamente” davanti agli occhi; l’alterità come dimensione più profonda del nostro essere “altri” e “con gli altri”; il silenzio come luogo in cui l’alterità può essere scoperta, accolta, raccontata; la fragilità infine e intrinseca inadeguatezza del nostro essere rispetto alle sfide della vita che, se riconosciute, ci costringono all’accettazione di noi stessi e alla solidarietà verso gli altri. In altre parole, ciò che Caspanello continua ad esprimere nel suo percorso è un’inesausta ricerca di autenticità e di saggezza che affronta la vita nei luoghi della vita, con equilibrio, memoria del dolore, giusto coraggio e senza pose inautentiche o melodrammatiche.
Un percorso prismatico in cui ogni allestimento si presenta come una faccia che si illumina e illumina diversamente il nucleo riflessivo di questo artista. Scriviamo questa volta di “Bar Stella”, lo spettacolo che ha debuttato dal 7 al 9 di febbraio sulla scena del “Teatro dei Tre Mestieri” di Messina. In scena ci sono Cinzia Muscolino (che, come di consueto, cura anche scene e costumi), Tino Calabrò e Francesco Biolchini. La traccia drammaturgica è legata al superamento difficile e alla accettazione adulta di una fragilità psichiatrica del giovane ‘Ntoni nel contesto del suo rapporto con fratello Giupé. Probabilmente non c’è stata prima tra i due alcuna vera rottura, non una lacerazione e nemmeno forse mai una parola fuori posto, solo l’accamparsi sempre più pesante e via via definitivo di un silenzio frustrato, incattivito, velenoso, di un allontanarsi irresponsabile che non è stato mai veramente affrontato.
E quindi, nello spettacolo, ecco la delicatezza dell’incontro, la gioia del ritrovarsi in un qualunque “Bar Stella” di una qualunque periferia del mondo, ed ecco la presenza misteriosa, maieutica, quasi sacrale, di una Stella (nella forma transeunte della proprietaria del bar) che, sorridendo, accoglie, sostiene, cura e riesce a sciogliere la difficoltà di quell’incontro. L’evento teatrale sulla scena è sostanzialmente lineare: l’incontro tra i tre protagonisti si dispiega in modo semplice e di semplice comprensione; forse eccessivamente semplice nell’intreccio (ed è questo il maggior difetto dello spettacolo). Le sue qualità principali sono invece da una parte la profondità e la delicatezza con cui l’autore /regista esplora i sotto-testi e poi rivela o, meglio, suggerisce ciò che c’è (o può esserci) nel vissuto dei protagonisti, ciò che è accaduto prima e dentro di loro e tra di loro, ciò che infine non è mai stato del tutto rivelato, e dall’altra l’inquieta leggerezza con cui gli attori sanno accogliere e restituire al pubblico, ciascuno con sfumature diverse, questa complessità.

BAR STELLA
Scritto e diretto da Tino Caspanello. Con Francesco Biolchini, Tino Calabrò, Cinzia Muscolino. Scene e costumi di Cinzia Muscolino. Assistente alla regia Maria Rosa Biginelli. Produzione Teatro Pubblico Incanto.

Foto Carmine Prestipino

Pinuccio – Aldo Rapè

PALERMO. In ogni tradizione letteraria o teatrale o anche, genericamente, artistica ci sono dei motivi che ritornano, dei luoghi dello spirito e della riflessione/mimesi/invenzione letteraria o teatrale che negli anni hanno assunto un valore paradigmatico, sono diventati topoi che occorre conoscere ma che poi è difficilissimo usare quando si costruiscono nuove narrazioni che in qualche modo devono contenerli. È questo certo il caso delle grandi miniere di zolfo siciliane e della loro presenza, non solo nella memoria di tante famiglie siciliane e nella cultura popolare di buona parte dell’isola, ma anche in numerose e celeberrime pagine della letteratura siciliana (Verga, Pirandello, Sciascia, Rosso di San Secondo): luoghi di sfruttamento bestiale, di schiavitù, luoghi di lavoro e sacrificio, di dolore, di lutto e di affetti stroncati, luoghi di costruzione di ricchezza e di lotta politica, di economia proto-capitalistica, luoghi capaci di generare racconti e fantasmi. È questa la prima difficoltà che affrontano opere come “Pinuccio”, lo spettacolo che Aldo Rapè (attore, regista, teatrante a tutto tondo e da qualche tempo anche direttore del Teatro pubblico di Caltanissetta), ha presentato sabato 23 febbraio scorso sulla scena dello “Spazio Franco” a Palermo. Si tratta della storia di Peppino, un bambino rinominato Pinuccio appena prima di cominciare a lavorare nella miniera di zolfo di Gessolungo a Caltanissetta, a dieci anni: rimasto orfano di padre (zolfataro morto nel buio di quella stessa miniera), diventa “carusu di miniera” e scende a lavorare nudo nelle viscere della terra con gli altri due suoi fratellini (rispettivamente di otto e sei anni). Inutile dire l’orrore che può suscitare oggi il pensiero di un così violenta pratica di sfruttamento che si è abbattuta su bambini inermi nelle nostre terre, in Europa, nel cuore del Mediterraneo, sino a pochi decenni fa. Ciò che conta politicamente è che pratiche del genere siano state abolite e siamo giustamente rifiutate ed esecrate moralmente. Dal punto di vista artistico ne scaturisce il rischio, presente e pressante, di cadere nel già visto/già sentito e quindi, sostanzialmente, di lavorare su qualcosa che non ha vera necessità estetica. Un rischio paralizzante e non facile da evitare del tutto. Aldò Rapè sa trovare però il modo per venirne fuori (quasi) indenne: è il modo è lo stile dell’attore, la cura del linguaggio teatrale e del ritmo, il sorvegliato e lentissimo dispiegarsi della parola d’attore che è suono, corpo, ritmo, consapevolezza storica, incantamento. Interessante, densa di echi e ben calibrata anche la presenza degli apporti sonori prodotti da vivo da Sergio Zafarana. Uno spettacolo insomma lieve e ben fatto, che suscita emozioni e domande che afferiscono, con autenticità, alla sostanza storico-politica del nostro presente e della nostra umanità globalizzata. Certo ci vuole intelligenza e un bel mestiere per arrivare a questo punto ed è la bella sorpresa che in questo lavoro Rapè riserva al suo pubblico.

Paolo RANDAZZO

PINUCCIO, di e con Aldo Rapè, musiche originali dal vivo Sergio Zafarana, Zafarà. Produzione Prima Quinta Teatro. Crediti fotografici di  Lillo Romano.

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L’ammazzatore / Palazzolo – Cutino

PALERMO. “L’Ammazzatore” di Rosario Palazzolo, drammaturgo e interprete insieme con Salvatore Nocera, e del regista Giuseppe Cutino è uno spettacolo importante. Ha debuttato al Biondo dal 19 al 24 febbraio e subito dopo s’è visto a Milano sulla scena del Teatro della Contraddizione. È uno spettacolo importante perché in esso due linguaggi creativi, diversi e distanti tra loro, si sono incontrati positivamente dialogando, ascoltandosi con attenzione e rispetto, valorizzando reciprocamente le peculiarità artistiche. È possibile cogliere in esso infatti l’esatta concretezza del linguaggio registico di Cutino, che sa stare coi piedi ben piantati per terra senza smarrire al contempo una buona dose di leggerezza e senza nascondere un autentico spessore culturale che non indugia in citazioni né, tantomeno, in auto-citazioni. Dall’altra parte di questo allestimento si accampa invece l’amore incontinente e corrosivo di Palazzolo per la dimensione paradossale della realtà e del linguaggio: prima che gli opposti della realtà arrivino a incontrarsi, questo teatrante con la sua feroce e innocente percezione del mondo, col suo pietoso sarcasmo (e tanto più pietoso quanto più ferreo), con la sua intelligenza veloce e divertita, ne ha già doppiato il giro (il testo è stato pubblicato nel 2007). Questa è la caratteristica più singolare e feconda del teatro di Palazzolo ed è stato bravo Cutino a riconoscerla, a valorizzarla, senza smettere per questo di fare il suo lavoro di regista. Una percezione della realtà feroce e innocente: non c’è nulla, ad esempio, nel personaggio (Ernesto Scossa) di questa piéce che solleciti umane simpatie, tenerezza, comprensione, giustificazioni, nulla. L’ammazzatore è esattamente ciò che appare: un balordo diventato assassino per sfangarsela, un balordo che usa tutta la sua ferocia, necessaria e innocente, grottesca e delirante, per crescere nella sua professione, per “essere” prima ancora di “diventare” qualcuno o qualcosa. Ma siccome nemmeno quella di un balordo è una vita semplice, neppure se sai usare la pistola, neppure se poi ti innamori e provi a scappare, a fuggire, a diventare altro da quel sei (perché lo hai voluto o perché altri lo hanno voluto per te), ecco che il personaggio che dovrebbe rappresentarla è destrutturato, vistosamente duplicato, affidato a due attori, a due corpi, a due parole che s’inseguono e respingono, e non per racchiuderla in una dualità accessibile e rassicurante, ma per moltiplicarla, disperderla, dissiparla si direbbe meglio, in una pluralità di prospettive, voci, storie, di vittime e carnefici, di morti ammazzati ch’erano già morti prima di morire, com’era già morto l’ammazzatore stesso prima che iniziasse lo spettacolo. Ritmo vertiginoso e avvolgente, narrazione post mortem, denuncia sociale, sogno perturbante, black comedy, commedia dei fantasmi, teatro siciliano contemporaneo nell’accezione più colta e aperta: da non perdere. Visto a Palermo, nella Sala Strehler del Teatro Biondo, il 23 febbraio scorso.

Paolo RANDAZZO

 

L’ammazzatore

Di Rosario Palazzolo, regia Giuseppe Cutino, con Salvatore Nocera e Rosario Palazzolo, scena e costumi Daniela Cernigliaro, disegno luci Petra Trombini, aiuto regia Simona Sciarabba, produzione A.C.T.I. Teatro Indipendente, in collaborazione con M’Arte Movimenti d’Arte, Teatrino Controverso, T22, durata 60 minuti circa. Dal 19 al 24 febbraio al Teatro Biondo di Palermo. Dal 28 febbraio al 3 marzo al Teatro della Contraddizione di Milano. Dal 9 al 10 marzo al Clan Off di Messina. Crediti fotografici: Giuseppe Cutino.

 

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Aldes, danza: In girum imus nocte et consumimur igni

CATANIA. Ci sono spettacoli perfettamente formalizzati ma non chiusi: non raccontano una storia definita, non l’attraversano, non la riflettono, piuttosto attirano lo spettatore in un campo più o meno ampio di sensi, di simboli, di significazioni e lì lo lasciano a smarrirsi, a interrogarsi, a ritrovarsi. Un campo, si badi bene, ben pensato e perfettamente costruito e delimitato dal magistero artistico dell’autore o – come in questo caso – dell’ensemble. È quanto vien fatto di pensare in relazione a In girum imus nocte et consumimur igni, il misterioso spettacolo di danza di Roberto Castello e della sua Compagnia Aldes, che si è visto a Scenario Pubblico, a Catania, il 19 gennaio scorso. Si tratta di un lavoro del 2015 ma vivo, vibrante, potente, ancora straordinariamente capace di parlarci. In scena a danzare ci sono Mariano Nieddu, Stefano Questorio, Giselda Ranieri, Ilenia Romano; le luci, i costumi e la musica soprattutto (minimalista, ossessiva, fondamentale nella concezione di questo lavoro), sono dello stesso Castello. Uno spettacolo misterioso, circolare nella sua apparente immobilità, ipnotico nel ritmico dispiegarsi dei quadri viventi, dei movimenti, delle cellule coreografiche e del tappeto sonoro. È evidente che va in questa direzione anche la scelta del titolo (quel palindromo misterioso e antichissimo che sembra alludere, forse iniziaticamente, alla caducità della vita come ad uno stabile e circolare susseguirsi di bagliori che si consumano bruciando nel breve volgere di una notte). E ancora, si tratta di uno spettacolo “numinoso”, come direbbero gli antropologi: numinoso perché, negli infinitesimali spazi vuoti, bui e/o silenziosi che le cellule ritmiche e coreografiche implicano nel loro avvicendarsi, s’inseriscono come divinità bizzarre e sotterrane, necessari frammenti di senso e umanità che poi si rivelano per bagliori e illuminazioni e rendono intellegibile questo lavoro: indirizzano, suggeriscono legami segreti, parentele artistiche più o meno scoperte (esperienze internazionali di danza contemporanea e di teatro, la pittura dei fiamminghi, il cinema in bianco e nero, esperienze di graphic novel), rendono evidente la dimensione dell’assoluta mancanza di senso in cui si trova ad essere tragicamente gettata l’umanità, l’impossibilità oggettiva della speranza nella storia dell’uomo, la necessità di una dimensione minimale e fuggevole della gioia, l’impossibilità del cambiamento se non come fragile illusione necessaria prima del prossimo naufragio.

 

Di Roberto Castello/ALDES in collaborazione con la Compagnia. Interpreti: Mariano Nieddu, Stefano Questorio, Giselda Ranieri, Ilenia Romano; luci, musica, costumi di Roberto Castello. Assistente: Alessandra Moretti; costumi realizzati da Sartoria Fiorentina, Csilla Evinger. Produzione: ALDES, con il sostegno di: MiBACT/Direzione Generale Spettacolo dal vivo, Regione Toscana/Sistema Regionale dello Spettacolo.

Crediti fotografici: Paolo Porto, Cristian Rubbio, AlessandroColazzo.

 

https://www.rumorscena.com/05/02/2019/vivere-bruciare-amare-il-successo-dello-spettacolo-di-roberto-castello-e-aldes-a-catania